fig.1 Tavoletta che contiene il mito di Atrahasis. E’ scitta in lingua accadica e risale XVII secolo a.C. E’ conservata al British museum di Londra.
Durante un’assemblea della comunità archeologica tenutasi a Londra nel 1972, venne annunciato che tra migliaia di tavolette rinvenute in Mesopotamia era stata scoperta una versione del diluvio precedente a quella della Bibbia. Da quel giorno altre versioni sono state recuperate e mostrate al mondo. A seconda delle culture di appartenenza cambiavano i protagonisti, ma i contenuti della narrazione rimanevano pressoché invariati.
Principali epiche dedicate al diluvio in ordine cronologico:
Mito babilonese di Utnapihtim contenuto nella tavola XI dell’Epopa di Gilgamesh
Mito di Noé contenuto nel libro della Genesi della Sacra Bibbia.
L’Atrahasis (Grande saggio) è una composizione paleobabilonese scritta in lingua accadica nel XVII secolo a.C. ispirata dal mito sumero di Ziusudra, la più antica epica dedicata al diluvio più antica mai rinvenuta.
Atrahasis Tavola I Il Poema di Atraḫasis si apre con la condizione venuta in essere subito dopo la creazione del cosmo e delle divinità primordiali. Il dio del cielo Anu salì alla volta celeste, Enki scese nell’Apsû, mente Enlil tenne per sé la superficie della Terra. L’Atrahasis presenta un panteon delle divinità diviso in due categoria, Gli Annunaki e gli Igigi. Quest’ultimi rappresentavano la sesta generazione di divinità e in quanto dèi minori erano sottomessi ai loro progenitori. Agli Igigi spettava il duro lavoro sulla terra, e da ciò dipendeva il sostentamento di tutti gli Anunnaki loro progenitori. Il testo ricorda che furono gli Igigi a scavare i fiumi Tigri e Eufrate, i due fiumi che rendono fertile tutta la Mesopotamia e da cui dipendono i frutti dei raccolti.
Tavola I (1-26 riga)
Fig.1 Ordinamento delle divinità principali
1 Quando gli dei erano uomini,
Sottostavano alla corvée, portavano il canestro di lavoro;
– il canestro di lavoro degli dei era troppo grande,
il lavoro oltremodo pesante, la fatica enorme ;
5 i grandi Anunnaku, i sette,
avevano imposto la corvée agli Igigi:
Anu, il loro padre, era il re,
il loro mentore era l’eroe Enlil;
il loro maggiordomo era Ninurta,
10 [e] il loro gendarme [En]nugi.
Essi avevano battuto le mani,
avevano gettato le sorti, e così gli dei si erano suddivise le competenze:
Anu era salito in cielo,
[Enlil] aveva preso per sé la terra con gli esseri viventi;
15 [il chiavistello], lo sbarramento del mare,
[essi avevano dato] ad Enki, il principe.
[Quelli di An]u salirono in cielo,
[quelli di Enki] scesero nell’Apsu;
quelli del cielo [ … erano esentati dalla corvée],
20 (mentre) agli Igigi [fu imposto il canestro di lavoro].
[Gli dei iniziarono] a scavare [i fiumi],
[essi aprirono i canali], la vita del paese;
[gli Igigi] scavarono [i fiumi],
[aprirono i canali, la v]ita del paese;
25 [gli dei scavarono]il fiume Tigri,
[e l’Eufrate d]opo.
Gli dèi Igigi lavorarono giorno e notte per 2500 anni finché a un certo punto iniziarono a rimuginare per il duro lavoro che gli era stato imposto. Uno di loro (di cui non conosciamo il nome, forse Alla) spronò tutti ad abbandonare il lavoro e a ribellarsi a quella servitù, creando una situazione che per certi versi potremmo definire il primo sciopero lavorativo della storia. Gli Igigi gettarono nel fuoco gli arnesi da lavoro e marciarono verso il santuario di Enlil con intenzioni bellicose.
Tavola I (37-44 riga)
per 2500 anni [gli Igigi] l’enorme
corvée sopportarono giorno e notte;
[Essi (però) mugu]gnavano, rodendosi il fegato,
40 [rimug]inando, mentre scavavano:
“Orsù! al nostro [soprintenden]te, il maggiordomo,vogliamo rivolgerci,
affinché egli ci liberi dalla nostra [pesan]te corvée;
[il signore], il mentore degli dei, l’eroe,
[ors]ù, snidiamolo dalla sua abitazione!”
Era passata da poco la mezzanotte quando il santuario del dio Enlil venne circondato dalla protesta degli Igigi. Gli dèi servitori di Enlil, Kalkal e Nusku, osservavano preoccupati la scena: il primo chiuse la porta del santuario, mentre il secondo svegliò il suo signore avvertendolo del pericolo. Come descritto chiaramente nell’ENUMA ELISH e come traspare un pò da tutte le epiche mediorientali, gli dèi Anunnaki non gradivano di essere disturbati durante il loro riposo. Enlil fece quindi portare le armi e fece barricare le porte, dopodiché convocò Anu ed Enki. Enlil, sempre incline a soluzioni violente, espose i fatti e domandò agli altri dèi se era il caso di provocare una battaglia per sedare la rivolta, mentre Anu, con saggezza, consigliò di inviare il suo servitore Nusku affinché fossero chiarite quantomeno le ragioni di tale rivolta.
Tavola I (101-115 riga)
Anu era presente, il re del cielo,
il re dell’Apsu, Ea teneva le orecchie aperte;
(Quando) i grandi Anunnaki furono seduti,
Enlil si alzò, la seduta [fu (dichiarata) ape]rta:
105 Enlil aprì (allora) la sua bocca,
106 così parlò ai [gran]di [dei]:
“Proprio contro di me si stanno rivoltando!
Debbo ora io ingaggiare una battaglia [ ?]
Che cosa non ho visto con i miei propri occhi:
110 la battaglia ha raggiunto la mia porta!”
Anu aprì allora la sua bocca,
così parlò all’eroe Enlil:
“Il motivo per cui gli Igigi
si sono accalcati alla tua porta,
115 vada Nusku ad [accertarlo!]
Nusku si recò dagli Igigi e quest’ultimi gli spiegarono le ragioni della loro rivolta. Nusku tornò nel santuario di Enlil ed espose agli Anunnaki le ragioni degli Igigi. Enlil pianse e meditò di abbandonare la terra per salire in cielo con Anu, restituendo a lui le competenze divine sul sul pianeta. Anu, invece, comprese bene le ragioni degli Igigi, quindi suggerrì di creare un sostituto, affinché potesse lavorare al posto degli gli Igigi e provvedere a sostentamento degli dèi. Questa creatura l’avrebbero chiamata “Lullû” (l’uomo).
Tavola I (181-197 riga)
Anu aprì la scca,
così parlò al dio, suo fratello:
“Di quale colpa li possiamo accusare?
185 Oltremodo pesante era il loro lavoro, insopportabile la loro fatica;
o[gni giorn]o la terra [ ] …..
[il lavoro era troppo pe]san[te (e) noi potevamo u]dire il lamento!
[(Ma ora) dobbiamo] ottemperare [ad una incombenza]:
“è presente B[elet-ili, la dea-m]adre;
190 possa la dea-madre partorire creando,
in modo che l’uomo possa portare il canestro di lavoro degli dei”.
Essi convocarono la dea e chiesero
alla dea-madre degli dei, la saggia Mammu:
“Tu sei la dea-madre, creatrice dell’umanità,
195 crea l’uomo primigenio, ché possa portare il giogo;
possa portare il giogo, l’incombenza di Enlil,
possa l’uomo sollevare il canestro di lavoro degli dei”.
Anu convocò la dea Mammu (la dea madre) per operare la creazione e fece comunicare la sua decisione agli Igigi, i quali esultarono per essere stati sollevati da quella servitù. Mammu si rese disponibile alla creazione dell’uomo, ma necessitava dell’aiuto di Enki per procedere. Enki indicò in un dio il sacrificio necessario affinché si potesse procedere alla creazione del primo uomo. Per creare l’uomo si doveva impastare il sangue e la carne di un dio con l’argilla e gli Anunnaki decisero di sacrificare il dio Wê (il dio dell’intelligenza e dello spirito), le cui carni consentirono all’uomo di possedere l’eṭemmu (lo spirito). Enki (o Mammu) mescolarono l’argilla, mentre gli Anunnaki e gli Igigi sputarono sopra l’impasto. Così l’uomo venne creato.
Tavola I (210-226 riga)
210 Con la sua carne e il suo sangue
possa Nintu mescolare l’argilla,
in modo che dio e uomo
siano mescolati insieme nell’argilla.
Che nei tempi futuri noi ascoltiamo il tamburo,
215 grazie alla carne del dio che vi sia l’eøemmu;
che esso venga inculcato al vivente come suo marchio,
un marchio che non deve essere fatto cadere in oblio, l’eøemmu!”
Nell’assemblea essi risposero “si”,
219-220 i grandi Anunnaki,i responsabili dei destini.
Nel primo, settimo e quindicesimo giorno del mese
egli istituì un rito purificatorio, un bagno.
We’e, il dio che ha l’intelligenza,
essi immolarono nell’assemblea.
225 Con la sua carne e il suo sangue
Nintu mescolò l’argilla
All’uomo fu assegnato il pesante lavoro della terra e gli Igigi vennero sollevati dai loro obblighi. Nell’arco di 1200 anni gli uomini si moltiplicarono e divennero tanto rumorosi da disturbare nuovamente il sonno di Enlil. Il dio non sopportava il loro clamore, dunque ordinò che fosse scatenata un’epidemia. Al contempo entrò in scena Atrahasis, un uomo di grande saggezza che s’intratteneva volentieri con il dio Enki, il quale ricambiava ben disposto la sua attenzione. Atrahasis chiese ad Enki quanto sarebbe durata l’epidemia ed Enki, che in tutta la letteratura mesopotamica appare come amico/protettore degli uomini, consigliò all’uomo saggio di convocare i capi dei villaggi e di dire a loro di non offrire più sacrifici agli dèi, escluso Namtar, solo a lui si dovevano offrire del cibo di modo che onorato da tanti doni decidesse di sospendere la pestilenza. Gli uomini seguirono il consiglio di Enki e Namtar, confuso da tali adorazioni, sospese l’epidemia ordinatagli da Enlil.
Tavola I (352-371 riga)
[non erano ancora trascorsi] 1200 anni,
[che il paese si estese a dismisura], gli uomini divennero sempre più numerosi.
Il paese rumoreggiava [come un toro],
355 il dio si inquietò per il [loro frastuono].
[Enlil udì] il loro clamore;
[così parlò] ai grandi dei:
“Il tumulto dell’umanità [mi è diventato insopportabile],
[a causa del loro frastuono]non posso prendere sonno!
360 Date l’ordine affinché vi sia un’epidemia!
361-363 non conservate
Ma egli, [Atramhasis]
365 – il suo dio è Enki – teneva le orecchie [ben aperte].
Egli colloquiava [con il suo dio],
e questi, il suo dio [parlava] con [lui].
Atramhasis [aprì la sua] bocca,
così parlò al [suo signore]:
370 “Fino a quando … [ ];
vogliono essi forse addossarci la malattia fi[no ?”]
Tavola II
Il “baccano” degli uomini non si fermava, quindi Enlil ordinò la carestia. Parte del testo è andato perduto, ma grazie al ritrovamento a Nippur di un frammento paleobabilonese compatibile con questa narrazione è stato possibile ricostruirlo. Si ripetette quindi il dialogo tra Enki e Atrahasis, questa volta ad essere esclusivamente onorato con le offerte fu il dio Adad, che confuso dall’abbondanza di offerte, fece piovere sui campi, mettendo fine alla carestia.
Tavola II (1-43 riga)
1-12 non conservate (Atrahasis si rivolge agli anziani, riportando i consigli di Enki)
13 “[Gli Anzianial tempo] stabilito
[si riuniscano insieme nella (tua) c]asa a consulto.
15 [Fate sì che] gli araldi [proclamino],
che essi facciano udire la loro vo]ce nel paese:
«Non onorate i vostri dei,
non rivolgete preghiere alla vostra [dea!]
Andate piuttosto [alla porta di] Adad,
20 portate una focaccia [davanti ad essa!]»
Possa [l’offerta di farina] essergli gradita,
cosicché egli possa arrossire di vergogna per il dono / e sollevi la mano”.
Egli di giorno faccia scendere la nebbia,
25 e di notte possa far cadere / furtivamente la rugiada,
cosicché la terra produca di nascosto il doppio”.
Un tempio ad Adad essi costruirono nella città.
Essi diedero l’ordine e gli araldi proclamarono,
30 e questi fecero udire forte la (loro) voce nel paese;
essi non onorarono i loro dei,
essi [non ] rivolsero preghiere alla loro dea,
ma si [recarono] alla porta [di Adad]
e [portarono] una focaccia davanti ad essa.
35 L’offerta di farina gli fu gradita,
ed egli arrossì di vergogna per il dono / e sollevò la mano”.
Egli di giorno fece scendere la nebbia,
40 e di notte fece cadere / furtivamente la rugiada;
[i campi] produssero furtivamente il grano,
[ la fame] non li oppresse;
le loro [sembianze] ritornarono [gradevoli]
Dopo due tentativi falliti, Enlil fu maggiormente determinato a far cessare il baccano degli uomini e perciò decise di inviare nuovamente la carestia. Fece controllare l’esecuzione del suo ordine ad Anu e verificò lui stesso gli effetti della siccità sulla terra. Atrahasis si disperò per questo nuovo flagello che colpì la popolazione. In qualche modo Enki face intervenire Laḫmu (divinità primordiale legata all’acqua e custode delle porte dell’Apsu), ma il tentativo di porre fine alla carestia questa volta fallì. La siccità si diffuse maggiormente su tutta la terra e la piaga della carestia non accennava a terminare. Enki ritentò, coinvolgendo nell’impresa anche altre divinità (non è chiaro quali e come), riuscendo ad attenuare il flagello. Questo fatto fece infuriare Enlil, che a quel punto decise di convocare l’assemblea degli dèi. In quella sede lamentò la disobbedienza ai suoi ordini, mentre Enki scoppiò a ridere (o si infuriò). Enlil reagì prontamente all’affronto stabilendo lo sterminio totale dell’umanità, il Diluvio Universale, esigendo al contempo il giuramento solenne degli dèi affinché ciò si realizzasse.
Tavola II (VII 1-47 riga)
1-30 non conservate
[“voi avete imposto] il vostro canestro di lavoro [all’uomo],
(così) [voi] avete regalato il lamento [all’umanità];
voi avete immolato [un dio] assieme [alla sua intelligenza],
(ma ora) voi dovete ….. e [avete il compito di creare il diluvio],
35 è infatti il vostro potere che deve essere usato [contro il vostro popolo!]
Voi eravate d’accordo con [ ] il piano,
ma lo avete stravolto!
Facciamo sì che presti giuramento ….
il principe Enki!”
40 Enki aprì la sua bocca,
così parlò agli dei [suoi fratelli]:
“Perché mi volete far pronunciare un giuramento?
Dovrei forse alzare la mia mano contro la [mia] gent[e]?
Il Diluvio del quale mi avete parlato –
45 Che cosa è? Io [non ne ho idea]!
Potrei forse io generare [un diluvio?]
Questo è opera di Enlil!
Tavola III
Enki non voleva che l’umanità venisse sterminata, dunque inviò un sogno ad Atrahasis. Le righe che contengono l’invocazione di Atraḫasis nei confronti di Enki sono andate perdute. L’eroe del Poema invocò il dio e chiese spiegazioni riguardo al sogno che lo aveva spaventato. Enki, per non contravvenire al solenne patto degli dei Anunnaki, parlò alla parete della casa dell’uomo saggio, fingendo di non sapere che l’uomo stava ascoltando le sue parole dall’altra parte del muro. Enki invitò Atrahasis ad abbattere la sua casa e a costruire una barca, suggerendogli di nasconderla affinché il dio Sole Šamaš (Utu), non la scorgesse. Enki stabilì che la barca doveva essere grande e solida. Atrahasis convocò gli anziani della città e li avvertì che Enki e Enlil erano in dissidio.
Tavola III (I 20-39 riga)
[20 Parete, acoltami!
Parete di canna, indaga ogni mia parola!
abbatti la tua casa, costruisci una nave,
abbandona la ricchezza, / cerca la vita!
25 La nave che tu devi costruire –
le sue misure siano eguali,
27-28 non conservate
come l’abisso ad essa falle un tetto.
30 Affinché Shamash non vi veda dentro,
chiudila ermeticamente sopra e sotto.
Che la struttura sia solida,
il bitume resistente, in modo che tu renda (la nave) sicura!
Io poi farò scendere per te
35 abbondanza di uccelli, ricchezza di pesci”.
Egli aprì la clessidra e la riempì,
comunicandogli l’arrivo del Diluvio fra sette notti.
Atramhasis ricevette il messaggio,
(e) radunò gli Anziani alla sua porta.
Gli artigiani della città lo aiutarono Atrahasis a costruire la grande barca e quest’ultimo la riempirla con i suoi beni e con tutte le specie animale. Il tempo sulla città cambiò repentinamente, il cielo si oscurò e iniziarono i primi tuoni. Atrahasis si rifugiò nella barca e tappò con il bitume il boccaporto. Il Diluvio Universale si scatenò e le gli uomini morirono come mosche. Il terribile Diluvio fece inorridire anche gli dei ed Enki si infuriò nel vedere le sue creature sterminate.
Tavola III (III11-27 riga)
si sprigionò] il diluvio,
la sua potenza si abbattè sulla gente [come un’arma da guerra].
(A causa del buio) il fratello non vede più il suo fratello,
[non] erano più riconoscibili nel disastro.
15 [Il Diluvio] muggiva come un toro,
[come] un asino selvatico ragliante / [ululavano] i venti.
Dense erano le tenebre, SHamash non c’era più,
[ ] come mosche.
20 [ ] … del diluvio,
[ ] … [ ] …
[ ] …
[ ] l’urlo del diluvio.
[ il cuor]e del dio era furibondo,
25 [Enki] era fuori di se,
[(vedendo)] che i suoi figli erano annientati
proprio in sua presenza.
Gli uomini riempirono il mare come moscerini di fiume la dea Mammu si disperò. Il Diluvio terminò e la barca di Atrahasis approdò sulla cima di un monte. Atrahasis liberò tutti gli animali e offrì una fumigazione odorosa agli dei. Enlil si avvicinò alla barca e vendendo che un uomo era scampato al Diluvio si infuriò perché qualcuno aveva tradito il divino giuramento avvisando gli uomini. Anu suggerì che potesse essere stato Enki, il quale confessò il suo intervento a favore di Atrahasis e invitò Enlil a calmarsi. I versi che contenevano il confronto tra le divinità e il modo in cui trovarono un accordo un sono andati perdute. Gli dèi concedettero l’immortalità ad Atrahasis. La dea-madre impose agli uomini la mortalità e l’infecondità di alcune donne, facendo imperversare il Pašittu sula terra. Le successive 42 righe sono andate perdute. Il poema si conclude con un inno in onore di colui che ha salvato la stirpe dell’umanità nei giorni del Diluvio Universale, Il grande saggio Atrahasis.
Il mito sumero di “Enki e Ninmah” descrive gli eventi che portarono alla creazione dell’uomo. Dopo che il mondo venne organizzato dal potere divino, gli dèi vi si stabilirono spartendosi diritti e doveri sulla base un semplice ordinamento sociale che li divideva in due grandi categorie: quelli maggiori e quelli minori. Quest’ultimi dovevano lavorare la terra e provvedere al sostentamento della divinità più importanti, ma venne il giorno in cui decisero d’incrociarono le braccia per lamentarsi della loro disagiata condizione. Il testo tralascia i dettagli della protesta ma dal contenuto dell’Atrahasis apprendiamo che non fu affatto una contestazione pacifica, quanto più una tumultuosa rivolta. Il lamento degli dèi minori arrivò fino all’Apsu dove il riposo di Enki venne disturbato. Namma (o Nammu) spiegò ad Enki il motivo di tanto rumore e gli suggerì di sollevare gli dèi minori dal gravoso incarico creando un sostituto che potesse sopportare il peso del lavoro al posto loro. Enki stabilì che una simile cosa era fattibile, dunque creò una matrice (Singen e Sigsar) e all’interno vi crebbe un feto. Enki trasferì all’uomo embrionale una parte della sua intelligenza e con ciò lo rese diverso da tutte le altre forme di vita animale.
Il mito di “Enki e Ninmah” sottolinea la complessità dell’atto creativo, tanto da elencarne tentativi e difetti specifici di ogni singola creatura portata all’esistenza.
Estratto dalla tavoletta del mito “Enki e Ninmah”:
In quei giorni, i giorni in cui cielo e terra vennero creati,
In quelle notti, le notti in cui cielo e terra vennero creati,
In quegli anni, gli anni in cui i destini vennero fissati,
quando gli dei Anunna generarono,
quando le dee (madri e figlie) si sposarono,
quando le dee (madri e figlie) abitarono cielo e terra,
quando le dee (madri e figlie) diventarono pregne,
e gli dei dovevano portare il cibo nelle sale da pranzo,
gli dei maggiori sorvegliavano il lavoro, e gli dei minori portavano
il giogo del lavoro.
Lavoravano ai canali della terra di Arali, nella terra e nell’argilla,
ma smisero i lavori per lamentarsi di questa vita.
Quel giorno il creatore, il grande dio dalla grande sapienza,
Enki, nel suo Engur, il luogo delle acque sotterranee che nessun dio conosce,
dormiva nelle sue stanze e fu svegliato
dagli dei che si lamentavano
e si alzò dal suo letto.
La dea Namma, la prima madre che diede nascita agli dei,
portò le lacrime degli dei minori a suo figlio che dormiva,
a colui che giaceva nel suo sonno,
(….)
“Dio Creatore, le tue creature si lamentano,
figlio, alzati dal tuo giaciglio, rivolgi il tuo sguardo, la tua
saggezza,
crea per gli dei un sostituto, così che loro siano liberi dal giogo
del lavoro”
Dopo la creazione del primo feto Ninmah prese l’argilla per creare uomini compiuti, ma tutte la sue creature vennero in essere con gravi difetti che non gli permettevano di svolgere il compito per il quale erano stati pensate, ovvero lavorare la terra al posto degli dèi minori. Ninmah, assistita dalle dee della nascita, fece ben sei tentativi ma non trovò mai la ricetta giusta per creare un uomo compiuto. Il primo uomo non riusciva ad usare le mani, il secondo aveva problemi alla vista, il terzo non riusciva a camminare, il quarto non tratteneva l’urina, il quinto era una donna ma non poteva partorire e il sesto era privo di organi genitali. I tentativi di Ninmah si rivelarono un totale fallimento e quest’ultima si abbandonò al dispiacere per aver deluso le aspettative del fratello Enki. Quest’ultimo tuttavia mostrò la sua grande saggezza e benevolenza assegnando a tutti gli uomini creati dalla sorella un destino che tenesse conto delle loro gravi menomazioni.
Estratto dalla tavoletta del mito “Enki e Ninmah”:
Ninmah prese l’ argilla delle terre a nord dell’ Abzu,
creò un uomo ma egli non teneva le mani dritte,
Enki vide l’ uomo, egli non teneva le mani dritte, e decretò il suo destino,
e lo mise nel campo del re come servitore.
La seconda creazione fu un uomo che sfuggiva la luce,
Enki vide che l’ uomo rifuggiva la luce,
e decretò il suo destino, ne fece un abile musicista,
lo mise nel campo del re.
Il terzo uomo che fu creato aveva i piedi che non funzionavano,
Enki allora vide che l’ uomo non sapeva usare i piedi,
e lo rese un grande lavoratore dell’ argento lucente.
Il quarto uomo non sapeva trattenere l’ urina,
ed Enki vide che l’ uomo non tratteneva l’ urina,
e lo fece giacere nell’ acqua che scacciò il suo male.
Il quinto era una donna che non poteva partorire,
Enki vide che la donna non poteva partorire,
e ne fece una ancella nella casa della regina.
Il sesto era un essere senza pene ne vagina,
Enki vide che l’ essere non aveva pene ne vagina e ne decretò il
destino,
lo chiamò ‘dono di Nippur’ e
ne fece un attendente per il re.
Il mito prosegue con Enki e Ninmah che si invertirono i ruoli. Dopo i tentativi falliti da Ninmah, Enki prese in mano la creazione lasciando alla sorella la facoltà di decidere i destini. Enki creò una creatura dalle fattezze umane e disse ad a Ninmah di mettere il suo seme all’interno dell’utero di una donna (presumibilmente una dea dato che l’essere umano compiuto non era ancora stato creato). Il nuovo tentativo portò a risultati ancor peggiori dei precedenti, con la nascita di una creatura malata, chiamata Umul.
Estratto dalla tavoletta del mito di “Enki e Ninmah”:
Enki creò allora una forma che aveva testa e bocca,
e disse a Ninmah:
“versa il seme maschile nell’ utero di una donna”
Ninmah si avvicinò al nuovo nato,
colui che la donna aveva partorito era deludente,
egli era Umul, la sua testa era malata, il suo (…) era malato, gli
occhi e il collo erano malati,
non respirava, i polmoni e gli organi interni erano malati,
con le sue mani malandate e la sua schiena malandata non riusciva a
nutrirsi,
con i piedi e la schiena malati non poteva lavorare, così fu creato.
Enki disse allora a Ninmah:
“Gli esseri che hai creato, ne ho decretato i destini, ho nutrito;
tu ora, degli esseri che creo, decreta i destini e metti da mangiare
nel loro piatto.”
Ninmah guardò ad Umul e si avvicinò,
all’ essere malato parlò ma lui non sapeva parlare,
gli porse del cibo ma lui non riusciva ad afferrarlo,
non sapeva usare attrezzi, non poteva giacere,
non poteva sedersi se in piedi, non sapeva mantenere (?) la casa e
non sapeva nutrirsi
Ninmah disse ad Enki:
“L’ essere che hai creato è vivo e morto, non può badare a se stesso
e non può vivere”
Enki decretò che fosse Ninmah a decidere il destino di Umul, come lui aveva fatto per le sei creature generate dalla sorella, ma Ninmah non fu capace di stabilire un destino per questa creatura in quanto era viva e morta alla stesso tempo e non era in grado di badare a se stessa. Enki la rimproverò ricordando le sei creature imperfette che lei aveva generato e come lui stesso avesse stabilito un destino adatto per ognuna di loro, nonostante le loro menomazioni. A questo punto la tavoletta d’argilla è danneggiata e manca una considerevole parte del testo, in ogni caso si può intuire che Ninmah sentendosi rimproverata reagì ricordando ad Enki un disastro non meglio precisato avvenuto nella sua città, rinfacciandogli di non essersi curato di quando lei dovette abbandonare l’E.pur (il tempio di Nippur) e quando suo figlio (il nome non viene indicato) fu costretto a fuggire. Enki rispondse a Ninmah di pensare al destino della creatura, invitandola a dargliela indietro (forse per poter decidere lui stesso del suo destino). Enki chiuse la discussione con la sorella decretando che quel giorno, quello delle creazioni, fosse comunque lodato e festeggiato nonostante i risultati non all’altezza delle aspettative.
Estratto dalla tavoletta del mito di “Enki e Ninmah”:
La mia città e la mia casa son distrutte, mio figlio fuggitivo,
io stessa ho dovuto lasciare l’ E.Kur come fuggitiva,
non ho potuto evitare la tua mano!”
Enki rispose a Ninmah:
“Chi può cambiare le parole che hai pronunciato?
La creatura malata (…) libera dalla prigionia (?)
Ninmah, il tuo lavoro (la tua opera) sia (…) promettesti di (…) il
mio lavoro imperfetto, chi può contraddirlo?
L’ essere che ho creato, lascia che io lo abbia indietro,
sia oggi lodata la mia stirpe (?) sia riconosciuta la tua saggezza,
che gli Enkum e i Ninkum
possano stare di fronte a noi e pronunciare le parole della tua
gloria,
sorella mia, tu eroina,
siano scritte (…) canzoni (…)
Le concezioni teologiche che emergono dalla letteratura sumera descrivono un’epoca mitica in cui gli dèi si assegnarono diritti e doveri sulla base un semplice ordinamento sociale che divideva le divinità in due grandi categorie, quelle maggiori e quelle minori. Quelle minori dovevano lavorare la terra e provvedere al sostentamento delle divinità più importanti, ma venne il giorno in cui decisero d’incrociarono le braccia per lamentarsi della loro condizione. Le divinità maggiori compresero le ragioni degli dèi minori e per sollevarli dai loro obblighi decisero di creare l’uomo, un sostituto che potesse sopportare il peso del lavoro al loro posto. Per gli antichi sumeri il lavoro apparteneva alla condizione umana e all’opposto dei successivi convincimenti ebraici non lo consideravano una punizione divina, quanto più un destino. Leggendo “l’Inno alla zappa”, un importate testo creazionistico tratto dalla letteratura sumera, apprendiamo un concetto cardine dell’intera cultura mesopotamica: l’uomo esprime la sua natura divina e porta a termine il suo destino attraverso il lavoro.
L’Inno alla zappa è un testo sumero dedicato alla creazione dell’uomo che appartiene alla scuola di Nippur, una città della Bassa Mesopotamia fiorita nel corso del IV millennio a.C. e consacrata al dio Enlil. Prima che l’uomo fu creato, Enlil scavò un buco nella terra, creò la zappa e istituì le mansione del lavoro, successivamente elogiò le qualità della zappa fin nei minimi dettagli e la depose nel luogo in cui avrebbe cresciuto il primo uomo per affidargliela. Il testo attribuisce alla zappa un aspetto regale, presentandola come un prezioso scettro. Il fatto che le prime città della storia siano sorte presso una cultura cosi’ dedita al lavoro non è certamente un caso. Nel corso del IV millennio a.C., Uruk divenne una città, la prima della storia a potersi definire tale anche grazie all’elevata specializzazione del lavoro.
Fig.2 Sigillo sumero che mostra un’attività agricola. Una bestia da soma trascina l’aratro seminatore (apin) mentre due uomini lo guidano. Questo strumento era dieci volte più efficace della zappa nel lavorare la terra e seminare
INNO ALLA ZAPPA
1 <<il Signore ha fatto veramente risplendere tutto ciò che è appropriato,
Il Signore, la cui decisione dei destini è immutabile,
Enlil, affinché il seme del Paese uscisse dalla terra,
si affrettò a separare il cielo dalla terra,
5 si affrettò a separare la terra dal cielo.
Affinché Uzumua facesse germogliare la “forma” (dell’umanità),
Enlil apre una fessura nel pavimento di Duranki;
egli crea la zappa e sorge il giorno;
egli istituisce le mansioni del lavoro, stabilisce il destino
10 e mentre egli avvicina il braccio alla zappa e al canestro di lavoro,
elogia Enlil e la sua zappa.
La zappa aurea, dalla testa di lapislazzuli,
tenuta da fermi d’oro e d’argento delicati,
la cui lama sembra un vomere di lapislazzuli,
15 e la punta un unicorno solitario su una vasta piana.
Dopo aver elogiato la zappa, il signore ne fissò il destino,
e dopo averla cinta di una corona verdeggiante, egli porta la zappa in Uzu’ea.
Depone la <<forma>> dell’umanità nella fessura
20 e mentre il suo paese davanti a lui germoglia come erba dalla terra,
Enlil li guarda benevolmente i suoi sumeri.
Gli dèi Anunna si dispongono davanti a lui
e alzano le loro mani portandole (in gesto di preghiera) alla bocca,
essi rivolgono preghiere ad Enlil,
25 e consentono al suo popolo sumerico di prendere in mano la zappa>>.
fonte traduzione:Mitologia Sumera, Giovanni Pettinato, Unione Tipografica-Editrice Torinese (UTET)
Aratro seminatore sumero. Nel sigillo della fig.1 il dio Enlil lo impugna nella mano destra, nella fig.2, invece, viene tirato da una bestia da soma.
Per gli antichi sumeri il lavoro apparteneva alla condizione umana, una concezione opposta a quella dei successivi convincimenti ebraici che lo consideravano una punizione divina imposta all’uomo per aver trascredito gli ordinamenti divini.
Tratto dalla Genesi Biblica:
17 All’uomo (dio) disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare,
maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita.
18 Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l’erba campestre.
19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere tornerai!».
Tutti i miti sumeri dedicati alla creazione dell’uomo concordano su un punto fondamentale: l’uomo fu creato per lavorare la terra, così che gli dèi non dovessero più farlo. Dopo che il mondo venne organizzato dal potere divino, gli dèi vi si stabilirono assegnandosi diritti e doveri sulla base un semplice ordinamento sociale che divideva le divinità in due grandi categorie: quelle maggiori e quelle minori. Quest’ultimi dovevano lavorare la terra e provvedere al sostentamento della divinità più importanti, ma venne il giorno in cui decisero d’incrociarono le braccia per lamentarsi della loro disagiata condizione. Il testo tralascia i dettagli della protesta ma dal contenuto dell’Atrahasis apprendiamo che non fu affatto una contestazione pacifica, quanto più una tumultuosa rivolta. Per porre rimedio a questa situazione le divinità maggiori decisero di creare l’uomo, un sostituto che potesse sopportare il peso del lavoro al posto degli dèi minori. Nelle prime righe del Mito sumero di Enki e Ninmah viene descritta chiaramente questa situazione.
Tratto dal mito di Enki e Ninmah:
1 Nei giorni antichi, nei giorni in cui cielo e terra furono separati,
nelle notti antiche, nelle notti, in cui cielo e terra furono separati,
negli anni antichi, negli anni, in cui i destini furono fissati,
quando gli Anunna furono generati,
5 quando e dee furono prese in moglie,
quando le dee furono assegnate al cielo e alla terra,
quando le dee furono messe incinte e partorirono,
quando gli dèi erano obbligati al duro lavoro, per provvedere al loro sostentamento
allora i grandi dèi soprintendevano al lavoro mentre i piccoli dèi portavano il canestro del lavoro!
10 Gli dèi scavavano i canali e accumulavano terra in Harali;
essi dragavano la creta, però si lamentavano della loro vita!
fonte traduzione:Mitologia Sumera, Giovanni Pettinato, Unione Tipografica-Editrice Torinese (UTET)
Nel III millennio a.C. la Bassa Mesopotamia era organizzata secondo il principio politico delle città-stato e nei centri religiosi di ognuna di esse venne sviluppata un’idea soggettiva di come avvenne la creazione dell’uomo. Enki ed Enlilerano rispettivamente le divinità tutelari di Eridu e Nippur e di conseguenza i centri teologici di queste città proposero due versione differenti del mito al fine di attribuire il merito della creazione alla divinità poliade della città.
Nel mito di Enki e Ninmah l’artefice della creazione è Enki. L’avvenimento è descritto a partire dalla riga 23, quando la dea Namma esorta Enki a trovare un rimedio che possa migliorare la condizione degli dèi minori.
Tratto dal mito di Enki e Ninmah:
Figlio mio, alzati dal tuo letto, tu che in virtù della tua saggezza comprendi ogni arte;
crea un sostituto degli dèi, affinché essi possano liberarsi del canestro del lavoro!>>
Alle parole di sua madre Namma, Enki si alzò dal suo letto,
25 il dio in Halanku, il suo angoletto delle riflessioni, si batté la coscia con il palmo della mano,
il saggio, l’intelligente, l’accorto che conosce tutto ciò che è perfetto ed artistico, il creatore che forma ogni cosa, fece apparire il Singen ed il Sigsar,
Enki stese il suo braccio verso esse e là crebbe un feto!
Enki, il creatore, dopo aver infuso della sua intelligenza (o saggezza) all’interno della creatura, sua emanazione,
a sua madre Namma rivolse la parola:
30 <<Madre mia, alla creatura che tu avrai formato imponi la corvée degli dèi!
Dopo che tu avrai mescolato l’interno della fertile creta dell’abisso, Singen e Sigsar gratteranno la creata e tu allora farai esistere i loro arti,
Ninmah sia la tua aiutante;
Ninimma, Suzianna, Ninmada, Ninbarag,
fonte traduzione:Mitologia Sumera, Giovanni Pettinato, Unione Tipografica-Editrice Torinese (UTET)
Secondo questa versione l’uomo fu un frutto dell’infinita sapienza di Enki. Quest’ultimo creò Singen e Sigsar, che nel loro insieme rappresentano la matrice creata per contenere il feto del primo uomo. Enki lo infuse della sua intelligenza e con questa azione distinse l’uomo embrionale da tutte le altre forme animali, mentre il compito di completare la creatura venne affidato a Namma. Il mito continua poi con una serie di tentativi fatti da Ninmah per creare uomini compiuti. I tentativi si rivelarono tuttavia fallimentari perché le sue creature vennero in essere con gravi menomazioni. Questo mito sottolinea la complessità della creazione, tanto da elencarne tentativi e difetti specifici di ogni singola creazione. Anche Enki ebbe le stesse difficoltà della sorella, ma grazie alla sua infinità saggezza e benevolenza seppe assegnare ad ogni creatura un destino che tenesse conto delle sue gravi menomazioni.
Il forte attaccamento religioso alle divinità locali prevalse sempre, creando alcune divergenze ideologiche tra le differenti sedi di culto. “l’inno alla zappa” attribuisce il merito della creazione a Enlil. Quest’ultimo preparò le condizioni necessarie alla vita separando il cielo e la terra, poi scavò un buco nel terreno e vi depose la “forma” dell’umanità. Creò la zappa e stabilì le mansioni del lavoro che l’uomo avrebbe dovuto svolgere, al fine di sollevare gli dei minori dai loro compiti. L’uomo spuntò dal terreno come se fosse il germoglio di una pianta, in seguito Enlil gli affidò la zappa e di conseguenza i doveri.
Inno alla zappa
1 <<il Signore ha fatto veramente risplendere tutto ciò che è appropriato,
Il Signore, la cui decisione dei destini è immutabile,
Enlil, affinché il seme del Paese uscisse dalla terra,
si affrettò a separare il cielo dalla terra,
5 si affrettò a separare la terra dal cielo.
Affinché Uzumua facesse germogliare la “forma” (dell’umanità),
Enlil apre una fessura nel pavimento di Duranki;
egli crea la zappa e sorge il giorno;
egli istituisce le mansioni del lavoro, stabilisce il destino
10 e mentre egli avvicina il braccio alla zappa e al canestro di lavoro,
elogia Enlil e la sua zappa.
La zappa aurea, dalla testa di lapislazzuli,
tenuta da fermi d’oro e d’argento delicati,
la cui lama sembra un vomere di lapislazzuli,
15 e la punta un unicorno solitario su una vasta piana.
Dopo aver elogiato la zappa, il signore ne fissò il destino,
e dopo averla cinta di una corona verdeggiante, egli porta la zappa in Uzu’ea.
Depone la <<forma>> dell’umanità nella fessura
20 e mentre il suo paese davanti a lui germoglia come erba dalla terra,
Enlil li guarda benevolmente i suoi sumeri.
Gli dèi Anunna si dispongono davanti a lui
e alzano le loro mani portandole (in gesto di preghiera) alla bocca,
essi rivolgono preghiere ad Enlil,
25 e consentono al suo popolo sumerico di prendere in mano la zappa>>.
fonte:Mitologia Sumera, Giovanni Pettinato, Unione Tipografica-Editrice Torinese (UTET)
fonte:fonte:Mitologia Sumera, Giovanni Pettinato, Unione Tipografica-Editrice Torinese (UTET)
L’Epopea di Gilgamesh è un poema babilonese di ambientazione sumera che raccoglie tutti quegli scritti che hanno come oggetto le vicende del leggendario re di Uruk. La versione più completa di quest’opera venne redatta in lingua accadica su dodici tavolette d’argilla attorno al 1200. a.C., rielaborando in un’unica narrazione i racconti mitologici della letteratura sumera incentrati sulle imprese di Gilgamesh, brevi storie risalenti alla III dinastia di Ur (circa 2000 a.C.).
Gilgamesh e Agga
Gilgamesh e Huwawa
Gilgamesh e il Toro Celeste
Enkidu agli inferi (Gilgamesh e l’aldilà)
La morte di Gilgamesh
Mito di Ziusudra (mito del diluvio)
Il poema classico promuove la profonda amicizia, il cambiamento interiore e la nobiltà d’animo. La relativa semplicità d’espressione nasconde invece una profondità poetica inaspettata, dalla quale emerge il tema apparentemente dominate; la morte e il suo impossibile superamento.
Sebbene non esistano testimonianze archeologiche che possano attestare la passata esistenza di un sovrano chiamato Gilgamesh molti storici ritengono plausibile l’ipotesi che il mito sia nato per divinizzare un personaggio rilevante dell’epoca predinastica.
Lettura tematica consigliata da Civiltà eterne.it
Riassunto del poema la traduzione completa dell’opera è disponibile a questo indirizzo:http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/tavola_1.htm
L’epopea inizia con una solenne descrizione del grande Gilgamesh, sovrano della città sumera di Uruk. Il giovane re, per due terzi divino e per un terzo umano, possedeva una bellezza e una forza fisica che nessun uomo sulla Terra poteva eguagliare. Il suo cuore impavido lo spingeva a cimentarsi continuamente in nuove avventure, costringendo gli uomini della città a seguirlo in pericolose imprese. Per via del suo coraggio non esitava a buttarsi neppure negli scontri dall’esito più incerto e senza alcun timore aveva affrontato e sconfitto mostri e fiere di ogni genere. Questa sua attitudine e le continue battaglie suscitarono un notevole malcontento tra le mogli e le madri degli uomini che erano costretti a battersi al suo fianco. L’ego prevaricatore del Re impediva dunque a sui sudditi di vivere in serenità e di dedicarsi alle attività cittadine.
Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo;
di colui che apprese e che fu esperto in tutte le cose.
Di Gilgamesh, che raggiunse la più profonda conoscenza,
che apprese e fu esperto in tutte le cose.
Egli esplorò ogni paese
ed imparò la somma saggezza.
Egli vide ciò che era segreto, scoprì ciò che era celato,
e riportò indietro storie di prima del diluvio.
La creazione di Enkidu
Il malcontento dei sudditi di Gigamesh fu tale da arrivare alle orecchie degli Dei. Il concilio divino decise perciò di dare vita ad una creatura che pareggiasse la forza del grande Re e che non avesse timore di affrontarlo, in modo da limitarne la sua irrequietezza. Per questo compito fu incaricata la Dea Aruru, che creò Enkidu. Enkidu non fu generato nella condizione umana, ma nelle sembianze di una creatura selvaggia che viveva nella steppa. Un cacciatore lo vide e in preda allo spavento avvisò Gilgamesh di quell’incontro. Gilgamesh disse al cacciatore di portare ad Enkidu la Prostituta sacra per ammansirlo e grazie a questa iniziazione la creatura selvaggia fu civilizzata raggiungendo lo stato umano. A Gilgamesh apparve in sogno che un uomo bello e potente stava arrivando in città e così stava effettivamente avvenendo, quell’uomo era Enkidu che dopo aver raggiunto la condizione umana stava cercando Gilgamesh per affrontarlo e per dimostrare che la sua forza superava quella del Re. Enkidu arrivò in città mentre Gilgamesh era in procinto di accoppiarsi con una novella sposa per fruire dello jus primae noctis. Questa circostanza fece infuriare Enkidu che si pose dinnanzi a Gilgamesh impedendogli di compiere il suo volere, così i due si affrontarono.
«Tu, Aruru, creastì l’umanità,
ora dai vita al pensiero di An».«Sia egli la controparte del suo cuore burrascoso,
che possa contrastarlo, ed Uruk ne venga alleviata!».
La dea Aruru udite queste parole
diede vita al pensiero di An.La dea Aruru lavò le sue mani,
prese un grumo di argilla, lo gettò nella piana.
Nella piana lei creò Enkidu, l’eroe,
creatura del silenzio, reso forte da Ninurta.
Lo scontro tra Gilgameh ed Enkidu
La violenza dello scontro tra Gilgamesh ed Enkidu fu tale da far tremare le mura di Uruk. Per la prima volta Gilgamesh si confrontò con un avversario capace di eguagliare la sua forza e persino di piegarlo come annunciato dai suoi sogni. Tuttavia Enkidu riconobbe che Gilgamesh era un uomo superiore ad ogni altro e dal loro scontro, anzi che un’eterna lotta, nacque un profondo rispetto reciproco. I due eroi, che secondo i piani degli Dei avrebbero dovuto combattersi, diventarono sinceramente amici.
Tratto dalla tavoletta II – scontro tra Gilgamesh ed Enkidu:
fonte traduzione:http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/tavola_2.htm
per Gilgamesh, un rivale simile a un dio fu posto -,
Enkidu bloccava con il suo piede l’accesso alla porta
della casa del padre della sposa;
egli non permetteva a Gilgamesh di entrare:
essi allora si affrontarono davanti alla porta della casa
del padre della sposa;
si rotolarono nella strada, il Paese tutto fu scosso.
Gli stipiti si frantumarono, le mura tremarono.
Gilgamesh ed Enkidu nella foresta dei cedri
Gilgamesh propose al nuovo compagno di avventure un’impresa temibile. Era determinato ad affrontare Khubaba, il guardiano della foresta dei cedri, un terribile mostro dotato di una forza sovrumana. Enkidu era titubante, ma Gilgamesh non gli lasciò alternativa. I due Eroi tremarono davanti al mostro della foresta dei Cedri, ma alla fine unendo le loro forze ebbero la meglio e lo uccisero. Questa fu la prima delle tante imprese compiute dai due eroi, le stesse imprese che gli Dèi credettero di scongiurare inviando a Gilgamesh un rivale di pari forza.
Tratto dalla tavoletta IV – I due eroi uniscono le forze contro il mostro della foresta dei cedri. ( [ ] indica parti mancanti):
fonte traduzione:http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/tavola_4.htm
Come tori selvaggi, essi si affrontano,
per la prima volta egli muggì, pieno di terrore.
Il guardiano della Foresta grida,
[ ]
Khubaba come un dio grida.
Gilgamesh aprì la sua bocca e disse ad Enkidu:
“Di Khubaba la forza è troppo grande,
da soli non possiamo affrontarlo, [ ]
gli stranieri [ ];
un sentiero tortuoso non è percorribile facilmente
da uno solo, ma da due; [ ]
unendo la forza di noi due [ ]
una corda a tre fili è difficile da rompere
e un forte leone non può prevalere su due leopardi
L’offesa alla Dea Ishtar
La Dea Ishtar fu molto colpita dalle imprese dei due eroi. Ammirata dall’impareggiabile bellezza e forza di Gilgamesh tentò di sedurlo, ma venne respinta a causa della nota e infausta fine a cui erano destinati i suoi amanti. La Dea umiliata si rivolse ad An, il padre degli Dei, invocando l’invio del Toro Celeste nella città Uruk per provocarne la distruzione e per uccidere Gilgamesh. In un primo momento il Padre degli dèi rifiutò la sconsiderata richiesta del Dea, ma in seguito ad un ricatto di quest’ultima accettò. An inviò sulla terra il Toro celeste che provocò danni e distruzione, uccidendo più di trecento uomini. A quel punto Gilgameh ed Enkidu lo affrontarono e lo uccisero causando l’irrefrenabile ira della Dea Ishtar.
Quando Ishtar udì queste parole,
Ishtar divenne furiosa e salì al cielo.
Ishtar salì su e al cospetto di suo padre An cominciò a piangere,
le sue lacrime scorrevano al cospetto di sua madre Antu:”Padre mio, Gilgamesh mi ha umiliata più e più volte!
Gilgamesh ha pronunziato ingiurie contro di me,
ingiurie e offese contro di me!”.
La morte di Enkidu
La Dea umiliata chiese nuovamente vendetta agli Dei. Quest’ultimi stabilirono che i due eroi si erano macchiati di terribili colpe e che Enkidu doveva morire. Alcuni giorni dopo Enkidu si ammalò. Giacque in agonia per dodici giorni, durante i quali maledì il cacciatore che lo aveva trovato e la prostituta che tramite l’iniziazione sessuale lo aveva civilizzato e condotto tra gli uomini, salvo poi ritirale. Enkidu ripensò che gli stessi eventi che lo avevano condotto verso la condanna a morte lo avevano portato a conoscere Gilgamesh, compagno d’avventura e amico sincero che lo aveva fatto sedere al suo fianco ricoprendolo di onori. Enkidu morì e per sette giorni il grande Re pianse la sua scomparsa. Questo evento determinò un profondo cambiamento in Gilgamesh che perdette la sua spavalderia e la sua incontenibile voglia di avventura. Il Re di Uruk realizzò che la morte è l’inevitabile traguardo della vita e sorte comune per tutti gli uomini.
Tratto dalla tavoletta VII – Enkidi ritira le maledizioni alla Prostituta sacra:
fonte traduzione:http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/tavola_7.htm
“Perché, o Enkidu, stai maledicendo la mia prostituta
Shamkat?
E’ lei che ti offrì da mangiare pane adatto agli dei;
è lei che ti offrì da bere birra adatta ai re;
è lei che ti rivestì di paludamenti splendenti;
è lei infine che scelse per te come compagno il buon Gilgamesh;ed ora Gilgamesh, che è il tuo amico amato,
ti deporrà per riposare in un grande letto;
in un letto destinato all’amore egli ti farà riposare;
ti farà giacere in un luogo di pace, il luogo alla sinistra.
I re della terra baceranno i tuoi piedi,
ed egli farà in modo che il popolo di Uruk possa piangerti,
possa emettere lamenti per te;
e gli uomini robusti si caricheranno il fardello per te;
e per quanto riguarda se stesso egli trascurerà il suo aspetto
dopo la tua morte,
con indosso soltanto una pelle di leone egli vagherà
nella steppa”.
Udì Enkidu le parole del guerriero Shamash;
la sua ira si calmò, il suo cuore si placò;
la sua rabbia scomparì.
Gilgamesh, assalito da opprimenti pensieri, decise di intraprende un lungo e faticoso viaggio per incontrare Utanapishtim, dal quale sperava di riceve il segreto della vita eterna. Utanapishtim era un antenato di Gilgamesh che al tempo del diluvio fu salvato dagli Dèi e innalzato al loro pari con il dono dell’immortalità. Dopo la morte dell’amato compagno Enkidu, le imprese di Gilgamesh non erano più rivolte a soddisfate il suo ego smisurato, ma miravano a raggiungere la dimora lontana dell’eroe del diluvio per apprendere il segreto della vita eterna. Il pensiero della morte e lo sconforto generato dall’idea che un giorno non sarebbe più esistito divennero un’ossessione e trovare un modo per evitare questo destino divenne la sua ragione di vita. Il viaggio fu angosciante, Gilgamesh dovette superare gli uomini scorpione e attraversare la tenebra a tentoni per molte ore prima di arrivare al giardino degli Dèi dove nessun uomo partorito da una donna era mai stato. Poi attraversò le acque della morte che lo separavano dall’isola felice di Dilmun dove incontrò Utanapishtim. Questo fu un viaggio formativo per la coscienza e per lo spirito del Re di Uruk.
Tratto dalla tavoletta IX – L’animo affranto di Gilgamesh:
fonte traduzione:http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/tavola_9.htm
Gilgamesh, per Enkidu, il suo amico,
piange amaramente, vagando per la steppa:”Non sarò forse, quando io morirò, come Enkidu?
Amarezza si impadronì del mio animo,
la paura della morte mi sopraffece ed io ora vago per la steppa;
verso Utnapishtim, il figlio di Ubartutu,
ho intrapreso il viaggio, mi muovo veloce colà.
L’incontro con Utanapishtim e il racconto del diluvio
fonte immagine
Quando Gilgamesh fu al cospetto di Utanapishtim gli chiese come fece ad entrare nella schiera degli Dèi e Utanapishtim gli raccontò il suo segreto. Molto tempo fa le persone erano diventate troppo numerose e il loro baccano disturbava il sonno degli Dei, cosi’ Enlil, adirato, decise di inviare un diluvio sulla terra per estinguere tutti gli uomini. Enki, il fratello di Enlil, non era d’accordo con questa decisione e di nascosto avvisò Utanapishtim del pericolo imminente. Gli disse di costruire un’arca e di entrarci con tutti i suoi famigliari e tutti gli animali. Il diluvio spazzò via tutti gli uomini, ma Utanapishtim e la sua famiglia si salvarono insieme a tutti gli animali. Quando il diluvio finì, Enlil fu stupefatto nel vedere che Utanapishtim era sopravvissuto e incoraggiato da Enki dichiarò che da quel momento Utanapishtim non sarebbe più stato mortale e che avrebbe vissuto a Dilmun nella lontananza.
Utnapishtim parlò a lui, a Gilgamesh:”Una cosa nascosta, Gilgamesh, ti voglio rivelare,
e il segreto degli dei ti voglio manifestare. Shuruppak – una città che tu conosci,
che sorge sulle rive dell’Eufrate –
questa città era già vecchia e gli dei abitavano in essa.
Bramò il cuore dei grandi dei di mandare il diluvio.
Prestarono il giuramento il loro padre An,
Enlil, l’eroe, che li consiglia,
Ninurta il loro maggiordomo,
Ennugi, il loro controllore di canali;
Ninshiku-Ea aveva giurato con loro.
La prova del sonno
Dopo aver raccontato gli eventi del diluvio Utanapishtim mise alla prova Gilgamesh con la prova del sonno. Gilgamesh avrebbe dovuto resistere senza assopirsi per sei giorni e sei notti, ma affaticato da lungo viaggio sprofondò in un sono profondissimo. Quando si svegliò Utanapishtim gli disse che non poteva vincere la morte se egli non riusciva a vincere neppure il sonno.
Tratto dalla tavoletta XI – Gilgamesh non supera la prova del sonno:
fonte traduzione:http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/tavola_11.htm
Gilgamesh così parlò a lui, a Utnapishtim il lontano:
“Non appena il sonno è sceso su di me,
mi hai subito toccato e mi hai svegliato”.Utnapishtim così parlò a lui, a Gilgamesh:
“Guarda, Gilgamesh! Conta i pani!
Così apprenderai quanti giorni hai dormito.
Il pane del primo giorno è già secco,
quello del secondo giorno è raggrinzito, quello del terzo
giorno è molliccio, quello del quarto giorno ha la crosta bianca,
quello del quinto giorno ha perso colore, quello del sesto
giorno è appena cotto,
quello del settimo giorno era appena stato sfornato, quando
io ti ho toccato”.Gilgamesh così parlò a lui, a Utnapishtim il lontano:
“Ahimè! Come ho potuto fare ciò, Utnapishtim!
Dove potrò andare adesso?
I rapinatori mi hanno intrappolato,
nella mia camera da letto alberga la morte;
dovunque io ponga il mio piede, là c’è la morte”.
La pianta e il serpente
Gilgamesh fu travolto da un grande sconforto nel realizzare che neppure l’eroe del diluvio poteva aiutarlo ad evitare la morte, ma Utanapishtim lo consolò rivelandogli un’altro segreto. Sott’acqua cresceva una pianta che poteva far tornare giovani, cosi’ Gilgamesh andò nel punto che gli era stato indicato e si tuffo per raccoglierla. Quando tornò in superficie con la prodigiosa pianta manifestò l’intenzione di portarla a Uruk per restituire la giovinezza ai vecchi della città e poi ne avrebbe mangiato anche lui stesso. Questo fatto è molto importante e fa capire quanto questo viaggio sia stato formativo per lo spirito di Gilgamesh. Pensando a coloro che erano più vicini alla fine delle loro vite prima che a se stesso, dimostrò l’evoluzione del suo animo e il valore delle esperienze che trasformarono l’egocentrico Re in un nobile sovrano.
Durante la notte avvenne che Gilgamesh appoggiò distrattamente la pianta della giovinezza a terra e un serpente sentendone il profumo la mangiò. Il serpente perse immediatamente la pelle e torno’ giovane, mentre Gilgamesh pianse sconsolato. Ogni speranza di evitare la morte era persa. Qui troviamo un parallelismo simbolico non certo casuale con il mito di Adamo ed Eva, certamente non l’unico considerata la precedente descrizione del diluvio del tutto simile a quella biblica. Anche nella genesi la vita eterna era a portata di mano di Adamo ed Eva, ma quest’ultimi furono ingannati da un subdolo serpente. Gilgamesh fece ritorno ad Uruk, dove restauro’ i centri di culto distrutti dal diluvio che aveva colpito la terra moltissimi anni prima e continuò la sua vita arrivando alla fine come è destino per tutti gli uomini. Prima di morire fece scrivere tutte le sue fatiche su una stele di pietra e con la scrittura nacque la storia, non solo quella Gilgamesh, ma anche quella di tutto genere umano.
Gilgamesh parlò a lui, ad Urshanabi il battelliere:
“Urshanabi, questa pianta è la pianta dell’irrequietezza;
grazie ad essa l’uomo ottiene la vita.
Voglio portarla ad Uruk, e voglio darla da mangiare
ai vecchi e così provare la pianta.
Il suo nome sarà: “Un uomo vecchio si trasforma in uomo
nella sua piena virilità”.Anch’io voglio mangiare la pianta e così ritornerò giovane”.
Interpretazione del poema
Le rovine della città sumera di Uruk si trovano nell’odierno Iraq. L’origine di Uruk risale al 6000 a.c.. Divenne un’importante città sumera, poi in seguito babilonese. E’ considerata dai ricercatori la prima metropoli della storia e si stima che la sua popolazione potesse aggirarsi attorno alle 80.000 persone.
Questo poema epico, rispetto alle opere più moderne, è caratterizzato da una narrazione secca e sbrigativa, ma non priva di una grande profondità poetica che apre la strada a numerose interpretazioni.
Al primo impatto potrebbe sembrare che il tema dominate dell’opera sia la ricerca dell’immortalità, la morte e il suo impossibile superamento, ma analizzando il testo con più attenzione emergono altri aspetti molto significativi. Inizialmente Gilgamesh è un eroe egocentrico in cerca di gloria, ma dopo aver pianto la scomparsa dell’amico Enkidu viene travolto da una profonda inquietudine. Decide per ciò di intraprende un lungo e pericoloso viaggio alla ricerca della vita eterna, l’unico rimedio che possa salvarlo dal penoso destino che accomuna tutti gli uomini. Il lungo viaggio itinerante dell’eroe si sposta lentamente su un altro livello, quello spirituale, raccontando il cambiamento interiore del Re. Gilgamesh fa ritorno ad Uruk senza aver raggiunto il suo scopo, tuttavia non lo fa da eroe sconfitto in quanto torna come uomo saggio elevato ad un altro livello di consapevolezza. Il primo a sottolineare questo aspetto è stato l’archeologo e assirologo Giorgio Buccellati definendo Gilgamesh un eroe sapienziale.
Alla luce di questa interpretazione appare evidente che il tema centrale dell’opera è il cambiamento spirituale, mentre il tema della vita e della morte (dell’essere e non essere) viene immediatamente dopo. La prima parte dell’epopea, in cui vengono descritte le bellicose imprese di Gilgamesh, rappresenta “l’essere”, mentre lo smarrimento dell’eroe davanti alla morte del fedele amico Enkidu rappresenta il “non essere”, il contrasto che ne deriva riassume appunto le più grandi paure che risiedono nell’animo di ogni uomo, incentrate sul tema della morte e del suo impossibile superamento. Di fronte a queste paure “l’essere” si rivolta, cercando il modo di non venire annullato. Ma il fallimento è inevitabile per via dell’impossibilità di raggiungere la vita eterna.
Frammento della tavoletta “Enmerkar e il Signore di Aratta”
Lo sviluppo della scrittura cuneiforme fu una conseguenza dell’urbanizzazione. Non è un caso che i più antichi esempi di scrittura cuneiforme siano stati rinvenuti tra i resti dell’antica città sumera di Uruk. Durante il IV millennio a.C. Uruk divenne una città, la prima della storia a potersi definire tale in virtù dell’elevata stratificazione sociale e della specializzazione del lavoro. Il centro urbano arrivò a contare una popolazione di 80.000 abitanti distribuiti in soli 6 chilometri quadrati e questo contesto fece sorgere moltissime attività che per essere controllate e sfruttate a livello economico su tutto il territorio necessitavano di un sistema di controllo indiretto. A questo scopo nell’arco di un periodo relativamente breve vennero introdotti pesi di misura, recipienti standard e segni grafici con i quali si potevano compilare elenchi delle attività commerciali e dei prodotti per tenerne il conto. La protoscrittura sumera non permetteva di riportare ogni qualsivoglia pensiero e il contenuto dei testi si limitava alla compilazione di elenchi schematici, ma dopo un certo periodo di sviluppo diventò possibile scrivere tutte le informazioni desiderate. Prima della scrittura il sapere e l’identità culturale di un popolo venivano tramandati oralmente e il mito svolgeva una funzione formativa. Con l’introduzione della scrittura diventò possibile fermare un’informazione e trasferirla nel tempo e nello spazio immutata e grazie a questa invenzione ebbe inizio anche la storia.
“Enmerkar e il signore di Aratta” è un antico poema sumero che descrive l’invenzione della scrittura, una conquista dell’ingegno umano tra le più importanti nella storia dell’uomo. Questo racconto epico attribuisce l’invenzione a Enmerkar (forse il nonno di Gilgamesh), il mitico re sumero che fondò la città di Uruk. Enmerkar viene nominato anche nella Lista reale sumerica, un’elenco che antepone alle comprovate dinastie storiche la lista dei re mitici che governarono la Bassa Mesopotamia dopo il diluvio. Sebbene la reale esistenza di questi re/governatori non è documentata, non è da escludere il fatto che siano realmente esistiti in un lontano passato e che il loro mito sia lo sbiadito ricordo di una realtà storica precedente all’invenzione della scrittura. Il primo re sulla lista la cui esistenza storica è stata dimostrata da effettivi ritrovamenti archeologici è Enmebaragesi di Kish (circa 2700 a.C.).
Ziggurat di Uruk, luogo in cui furono trovate le più antiche tavolette scritte in caratteri cuneiformi. Questi ritrovamenti risalgono al 3100 a.C., periodo che corrisponde anche a quello della prima urbanizzazione della storia. (fonte immagine link)
Il poema è composto da 636 righe, il primo di un ciclo in cui si narra del conflitto, probabilmente reale, che contrappose la città di Uruk a quella di Aratta (Aratta non è ancora stata localizzata con certezza, ma probabilmente sorgeva sui monti iranici). Il poema non descrive scontri armati, bensì l’andirivieni di un messaggero che trasmetteva il pensiero dei due sovrani. Il volere di Enmerkar di Uruk era quello di sottomettere Aratta al suo dominio, ma dovette scontrasi con l’opposizione dell’innominato sovrano di Aratta. Il problema della sovranità si intrecciava con proposte di scambi commerciali, tra le granaglie di cui Uruk era ricca e il legname e le pietre dure di cui era provvista la regione di Aratta. Enmerkar faceva pervenire i suo messaggi al sovrano di Aratta tramite un messaggero che li ripeteva a voce davanti al destinatario. Venne però un momento in cui la contrattazione si fece talmente complessa che il messaggero si dimostrò incapace di tenere a mente il lungo e complicato discorso che il suo sovrano voleva recapitare al suo interlocutore. Il testo riporta:
“Il messaggero aveva la lingua pesante, non era capace di riportare il messaggio; poiché il messaggero aveva la lingua pesante e non era capace di riportare il messaggio, il Signore di Kullab (Uruk) impastò l’argilla e vi incise le parole come in una tavoletta; – prima nessuno aveva mai inciso parole nell’argilla – Ora, quando il dio Sole risplende, ciò fu manifesto: le parole che il signore di Kulab (Uruk) aveva inciso come in una tavoletta, divennero visibili.
Dopo l’invenzione della scrittura il messaggero prese la tavoletta e si presentò davanti al sovrano di Aratta.
Enmerkar, il figlio del Sole, mi ha consegnato una tavoletta di argilla;
o Signore di Aratta, esamina la tavoletta, prendi il cuore della sua parola;
ordinami ciò che debbo riferire riguardo al messaggio ricevuto.
Il Signore di Aratta dall’araldo prese la tavoletta lavorata artisticamente;
il Signore di Aratta scrutò la tavoletta:
– la parola detta ha forma di chiodo, la sua struttura trafigge –
il signore di Aratta scruta la tavoletta lavorata artisticamente.
Prima dell’invenzione della scrittura era l’orecchio a ricevere il messaggio, successivamente fu l’occhio a svolgere questa funzione. La metafora usata dall’autore del poema è molto poetica: “la parola scritta”, appunto perché a forma di “chiodo”, è atta a trafiggere l’occhio, quasi fosse un’arma, penetrando così nella mente dell’interlocutore. Il chiodo non solo è lo strumento con il quale veniva inciso il testo sull’argilla ma è anche la forma più appropriata per colpire il nuovo organo adibito a ricevere il messaggio.
Il codice di Hammurabi segna un punto di svolta fondamentale nella storia della civiltà dato che con esso inizia l’epoca del diritto. Il codice raccoglie una serie di atti normativi (o leggi) emanati dal sovrano, grazie ai quali il cittadino babilonese aveva la possibilità di verificare la propria condotta sociale in base a chiare indicazioni, potendo così evitare comportamenti sanzionabili, o scegliere di attuarli a suo rischio e pericolo dal momento che il codice rendeva pubbliche anche le eventuali pene inflitte ai trasgressori. La stele rappresenta un modello da seguire per un regno basato sulla giustizia e sull’equità ed oltre alla funzione sociale assume un valore propagandistico dato che trasmette l’idea di una società ordinata grazie al controllo del sovrano. La stele di basalto nero è alta 225 cm e su di essa sono elencati in caratteri cuneiformi i 282 ordinamenti emanati da Re Hammurabi di Babilonia (circa 1792-1750 a.C.). In cima sono rappresentati il dio solare Shamash e Re Hammurabi. Il sovrano indossa una veste e il copricapo regale che contraddistingue i sovrani di Babilonia e di Ur ed è raffigurato in piedi mentre compie un gesto di ossequio nei confronti del dio. Shamash porta una lunga barba e indossa il copricapo con le corna, elementi che nell’iconografia mesopotamica distinguono le divinità. Il dio Shamash siede sul trono mentre dalle sue spalle si diffondono i raggi solari. Hammurabi riceve dal dio il bastone e la corda, due strumenti di misurazione, simboli del potere regale e della giustizia.
Questo è un elemento fondamentale dato che in questo modo il cittadino che commetteva un “reato”, oltre a contravvenire ad una norma che tutelava la convivenza sociale compiva anche un atto blasfemo nei confronti degli dei. Sulla stele del codice di Hammurabi oltre il corpus legale è stato inserito anche un prologo nel quale viene esaltata la potenza degli dei che hanno chiamato il sovrano alla regalità affinché affermasse la giustizia divina e proteggesse i deboli. Il testo abbraccia moltissime situazioni possibili dell’umano convivere del tempo, dai rapporti familiari a quelli commerciali ed economici, dall’edilizia alle regole per l’amministrazione della repubblica e della giustizia. Questa stele è stata di grandissimo aiuto per gli storici, dato che ha consentito di ricostruire molti aspetti della società babilonese e della vita quotidiana. L’importanza del codice di Hammurabi risiede nel fatto che si tratta di una delle prime raccolte organiche di leggi pubblicamente consultabile, esplicitando il concetto giuridico della conoscibilità della legge, anche se è vero che la stragrande maggiorana della popolazione non sapeva leggere, dunque doveva essere istruita in merito.
Il codice fa un larghissimo uso della “Legge del taglione”, ben nota nel mondo giudaico-cristiano per essere anche alla base della legge del profeta biblico Mosè e probabilmente non è un caso visto quanto descritto in precedenza. La pena per i vari reati è infatti spesso identica al torto o al danno provocato: occhio per occhio, dente per dente. Ad esempio la pena per l’omicidio è la morte: se la vittima però è il figlio di un altro uomo, all’omicida verrà ucciso il figlio; se la vittima è uno schiavo, l’omicida pagherà un’ammenda, commisurata al “prezzo” dello schiavo ucciso. L’impostazione basata sulla legge del taglione modifica il pensiero giuridico dominante nel periodo precedente, attestato dal Codice di Ur-Namma, che prevedeva per alcuni reati semplici sanzioni pecuniarie invece di quelle corporali.
È possibile che questo cambiamento sia da attribuire alla diversa composizione della popolazione sud mesopotamica del periodo: nel XXI secolo a.C., data a cui risale il codice di Ur-Namma, i sovrani erano ancora di origine sumerica e la popolazione accadica era solo una parte del totale. Nel XVIII secolo a.C invece. gli Accadi, semiti, erano ormai la maggioranza e le stesse leggi vennero scritte in akkadico anziché in sumerico.
Il codice suddivide la popolazione in tre classi:
awīlum, il cittadino a pieno titolo, spesso nobili
muškēnum, il cittadino libero ma non possidente, povero o mendicante
wardum, lo schiavo, che poteva essere acquistato e venduto
Analizzando bene il testo ci si accorge che le varie classi hanno diritti e doveri diversi, e diverse pene che possono essere corporali o pecuniarie, queste ultime sono commisurate alle possibilità economiche del reo, nonché allo status sociale della vittima. Il concetto di uguaglianza ha valore soltanto rimanendo confinati all’interno di una determinata classe sociale, ma perde valore se si prende in considerazione la globalità delle classi. In fin dei conti anche al giorno d’oggi la legge non è uguale per tutti, perlomeno nell’antico regno di babilonia non si faceva finta che non fosse cosi’. Non viene riconosciuto nel Codice il diritto di responsabilità personale, ossia la pena non è differente a seconda che il danno commesso sia involontario o doloso. Un esempio classico è l’architetto che progetta una casa; se essa crolla e uccide coloro che vi abitano, la colpa è di chi l’ha progettato, e la pena è come se egli avesse ucciso di persona le vittime.
“Enmerkar e il signore di Aratta” è un antico poema sumero che descrive l’invenzione della scrittura, una conquista dell’ingegno umano tra le più importanti nella storia dell’uomo. Questo racconto epico attribuisce l’invenzione a Enmerkar, il mitico re sumero che fondò la città di Uruk, il primo insediamento urbano a potersi definire tale in virtù dell’elevata stratificazione sociale e della specializzazione del lavoro. L’improvvisa evoluzione dei centri urbani avvenuta in Bassa Mesopotamia nel corso del IV millennio a.C. favorì lo sviluppo di moltissime attività, che per essere controllate e sfruttate a livello economico su tutto il territorio necessitavano di un sistema di controllo indiretto. A questo scopo, nell’arco di un periodo relativamente breve, vennero introdotti segni grafici, pesi di misura e recipienti standard, con i quali si potevano compilare elenchi contabili delle attività commerciali e dei prodotti. La scrittura fu una conseguenza dell’urbanizzazione e fu sviluppata evolvendo gradualmente il primitivo sistema mnemonico ideato per tener computo delle attività umane. Al di là del mito e guardando alla realtà è evidente come questa invenzione non possa attribuirsi al genio di un solo individuo dal momento che l’indagine archeologica ha messo in luce diverse fasi di sviluppo. Il mito ha comunque il merito d’inserire questo importante accadimento all’interno di un contesto storico presumibilmente reale, sottolineando in maniera poetica le caratteristiche e i vantaggi del nuovo metodo di comunicazione.
Nel corso del IV millennio a.C. Uruk divenne una città, la
Prima fase – SCRITTURA PITTOGRAFICA
fig.1 Scrittura pittografica sumera
La prima fase evolutiva della scrittura sumera fu quella pittografica. Attorno alla fine del IV millennio a.C. vennero introdotti simboli corrispondenti all’immagine semplificata dell’oggetto che s’intendeva rappresentare. Attorno al 3000 a.C. i simboli utilizzati erano circa duemila. I sumeri rappresentavano l’acqua con due linee ondulate, il cielo con una stella, il grano con una spiga stilizzata, il bue con testa e corna, mentre i disegni stilizzati dei genitali maschili e femminili distinguevano un uomo da una donna. Alcuni simboli esprimevano le azioni, disegnando un piede rappresentavano il verbo “camminare” e con l’occhio il verbo “guardare”. Altre parole, invece, venivano rappresentate accostando due simboli, come nel caso della parola “schiava” che veniva rappresentata affiancando al simbolo delle montagne quello della donna, questo perché gli schiavi venivano recuperati nelle regioni montuose che circondano la Mesopotamia. Una testa accostata a un canestro da lavoro per la raccolta i prodotti agricoli significava “mangiare” e allo stesso modo una testa accostata alle line ondulate che rappresentano l’acqua significava “bere” (vedi esempi a fondo pagina). Durante la prima fase la scrittura di una tavoletta procedeva in maniera molto schematica, i prodotti venivano divisi per sezioni e affianco ad ognuno di essi venivano aggiunti i segni grafici utilizzati per indicarne la quantità.
La scrittura pittografica veniva utilizzata principalmente per compilare documenti amministrativi e commerciali. La tavoletta nell’immagine risale all’incirca al 3100 a.C. ed è un perfetto esempio di scrittura pittografica (fig.1). Su questa tavoletta venne registrata l’assegnazione di alcuni prodotti, tra cui la birra. Quest’ultima è rappresentata col disegno stilizzato di un vaso a base appuntita posto in posizione verticale. I simboli che rappresentano i prodotti venivano incisi sull’argilla con uno strumento acuminato, mentre quelli utilizzati per tenere il conto delle quantità venivano creati premendo forme arrotondate di diverse misure per distinguere le diverse unità di misura.
Seconda fase – SCRITTURA IDEOGRAFICA
fig.2 Evoluzione della scrittura in Mesopotamia
Il continuo sviluppo delle attività cittadine rese necessario un maggior utilizzo della scrittura, dunque si svilupparono sistemi più pratici e veloci per scrivere le informazioni. Col passare del tempo i tratti dei pittogrammi assunsero un aspetto sempre più stilizzato e le forme arrotondate vennero sostituite con tratti dritti. Inizialmente le righe e le figure vennero ruotate di 90°, migliorando l’aspetto e l’ordine delle tavolette. Venne introdotto anche un nuovo strumento per la scrittura, uno stiletto che permetteva l’incisione di brevi trattini a forma di chiodo (o cuneo) mediante una singola pressione. Col passare del tempo questi elementi determinarono la deformazione dei pittogrammi, fino al punto in cui, attorno al 2400 a.C., perdettero quasi ogni somiglianza con l’aspetto delle cose che si voleva rappresentare. Sta in questo la differenza tra scrittura pittografica e scrittura ideografica.
A grandi linee l’evoluzione della scrittura pittografica si può riassumere in quattro momenti (fig.2):
a Pittogrammi (3°millennio a.C.)
b Rotazione dei pittogrammi
c Segni cuneiformi tra il 2400 e il 2000 a.C.
d Scrittura cuneiforme assira (1000 a.C.)
fig. 3 Scrittura ideografica sumera
La scrittura pittografica poteva essere compresa da molte persone tramite l’apprendimento di poche nozioni, mentre la scrittura ideografica necessitava di un tempo di apprendimento più lungo.
Con gli ideogrammi migliorò la qualità d’espressione del testo scritto, ma allo stesso tempo il contenuto delle tavolette diventò incomprensibile alla maggior parte delle persone e la scrittura divenne un’arte esclusiva appannaggio di una ristretta categoria di persone istruite in particolari scuole (dette edubba, cioè “casa della tavoletta”). Data la notevole importanza della scrittura e il potere che derivava dal saper leggere e scrivere nell’ambito di una vasta società organizzata, gli scribi svolgevano spesso importanti incarichi ufficiali.
Terza fase – SCRITTURA CUNEIFORME SILLABICA
fig.4 Scrittura cuneiforme sumera
In questa fase si arrivò all’intuizione che portò ad un sistema adatto a poter scrivere ogni qualsivoglia pensiero utilizzando un ristretto numero di simboli grafici. L’intuizione che ebbero i sumeri fu quella di associare dei simboli ai suoni che si producevano durante la pronuncia delle parole che si volevano rappresentare. Il passaggio a questo livello d’espressione fu facilitato dalle caratteristiche della lingua che si parlava in Bassa Mesopotamia nel corso di quell’epoca. Il sumero era una lingua prevalentemente monosillabica e agglutinate. La struttura della scrittura cuneiforme si può dunque definire un complesso tra ideogrammi (risultanza degli antichi pittogrammi), morfemi (cioè di desinenze, suffissi e infissi, apposizioni, determinativi) e complementi fonetiche.
Ollantaytambo è un’antica cittadella inca situta nella Valle Sacra, a metà strada tra la capitale Cuzco e Machu Picchu; comprende complessi astronomici e religiosi, centri amministrativi, zone urbane e terreni destinati all’agricoltura. La sua posizione privilegiata all’interno della Valle Sacra non è assolutamente casuale, ma è stata scelta con maniacale attenzione. La conformazione di queste montagne, in relazione ai movimenti stagionali del Sole, permette il verificarsi di numerosi giochi di luce in corrispondenza dei giorni equinoziali e solstiziali. Gli antichi notarono che esisteva una relazione tra i cicli astronomici e quelli biologici e misero appunto dei sistemi per poterli monitorare. Le alte vette andine venivano usate come punti di riferimento per le osservazioni astronomiche, e in base a quest’ultime venivano programmate tutte le attività agricole. Gli astri come il Sole, la Luna e le stelle erano lo specchio in cui si riflettevano i cicli vegetativi, coi loro ritmi di semina, crescita e raccolta. In questo articolo descriverò “il risveglio del lama”, un particolare fenomeno luminoso che si configura ogni anno all’alba del solstizio d’inverno.
fig.1 Terrazzamenti di Ollantaytambo. La forma richiama volutamente l’aspetto di un lama.
Molti centri urbani costruiti dagli inca furono progettati in maniera da riprodurre l’aspetto di animali ritenuti sacri. I terrazzamenti di Ollantaytambo riproducono la sagoma del lama, un camelide tipico del Sud America e molto utilizzato dalle antiche società andine. La pianta di Cuzco, per esempio, fu progettata per ricalcare l’immagine di un Puma, anche se oggi la figura non è più distinguibile in quanto la città inca è stata inghiottita dall’urbanizzazione coloniale. Ad Ollantaytambo, nel giorno del solstizio d’inverno (21 giugno-nell’emisfero australe le stagioni sono invertite) avviene un vero e proprio miracolo. Dopo l’alba, i primi raggi di Sole che illuminano la valle, vanno a cadere in prossimità del tempio del Sole, nella zona che corrisponde idealmente all’occhio del lama, animando simbolicamente il suo risveglio.
fig.2 Terrazzamenti di Ollantaytambo all’alba del solstizio d’inverno. fonte immagine “Cuzco e la valle sacra degli inca” di Ferdenando e. Elorrieta Salazar e Edgar Elorrieta Salazar.
Per meglio comprendere l’importanza di questa rappresentazione simbolica bisogna sapere che il lama veniva identificato dagli inca in una specifica regione del cielo notturno. Tuttavia la sua forma non veniva riconosciuta raggruppando le stelle in una costellazione, bensì in una regione buia della volta celeste. Se vi è capitato di osservare la Via Lattea in una notte particolarmente limpida vi sarete accorti che la luminosità al suo interno è distribuita in maniera eterogenea. Le zone più scure, però, non sono determinate dalla presenza di un minor numero di stelle, ma da enormi ammassi di polveri galattiche che si frappongono tra la terra e il centro galattico, ostacolando la visione di miliardi di stelle. E’ in queste zone buie della Via Lattea che gli inca riconoscevano la forma del lama e di altri animali. Le stelle Alpha e Beta Centauri, invece, venivano considerate gli occhi dell’animale. La foto sottostante l’ho scattata dell’osservatorio astronomico di Chivay. Ho evidenziato il contorno della figura per rendere più facile il riconoscimento del lama celeste.
fig.3 Costellazione oscura del lama secondo la tradizione inca. Gli occhi del lama sono rappresentati dalle stelle Alpha e Beta Centauri.
Il risveglio del Lama è la rappresentazione simbolica di un periodico avvenimento astronomico. Ora vorrei che prestaste particolare attenzione a questo mito Inca trascritto da Francisco de Avila nel 1598, questa credenza fu registrata anche nei resoconti di Barnabè Cobo:
tratto da “Cuzco e la valle sacra degli inca” di Ferdenando E. Elorrieta Salazar e Edgar Elorrieta Salazar.
“…dicono che yacana (il lama celeste), è come l’ombra di un lama o un sosia di questo animale che cammina nel centro del cielo. E’ molto grande ed è più nero del cielo notturno. Ha il collo alto e due occhi..dicono anche che scende a bere l’acqua del mare quando non è possibile che lo vedano e lo sentano; perché se non bevesse quest’acqua il mondo intero rimarrebbe inondato. Inoltre dicono che abbia un cucciolo e quando questo inizia a poppare si sveglia…”
Per comprendere il linguaggio simbolico di questo mito bisogna sapere che la costellazione oscura del lama celeste raggiunge la sua massima altezza nel cielo notturno (massima declinazione) nel mese di aprile. La sua fase calante, invece, diventa evidente nel mese di giugno, in questo senso il lama “si sveglia”, si rivitalizza, iniziando la discesa verso l’orizzonte. Nel mese di ottobre raggiunge il suo punto più basso e in questo periodo la testa della costellazione oscura, e i suoi occhi formati da Alpha e Beta centauri, spariscono sotto l’orizzonte.
Muro dei sei monoliti, all’interno del centro cerimoniale illuminato dal Sole all’alba del solstizio d’inverno (“occhio del lama”).
Dopo aver raggiunto il punto più basso ad ottobre inizia lentamente a risalire e continua farlo fino al successivo mese di aprile in cui raggiunge nuovamente la massima altezza nel cielo notturno. Tutto è perfettamente coerente; nei mesi che vanno da giugno ad ottobre in Perù non piove praticamente mai, mentre da novembre ad aprile le precipitazioni sono abbondanti. Secondo il mito, il lama si sveglia a giugno e inizia la sua discesa alla ricerca di acqua per far fronte al periodo di siccità, mentre ad ottobre, quando raggiunge il punto più basso nel cielo si disseta con l’acqua del mare annunciando la fine alla stagione secca. Nel periodo che va da ottobre ad aprile risale lentamente, e lo fa scaricando sulla terra tutta l’acqua che aveva bevuto dal mare ponendo fine alla stagione secca. Questo è un mito straordinario che testimonia l’incredibile consapevolezza che gli inca avevano dei fenomeni meteorologici. Grazie ad uno straordinario legame con la natura avevano compreso che l’acqua che piove dal cielo proviene dal mare e al mare ritorna in un ciclo senza fine. Gli antichi, però, non potevano concepire le forze chimico fisiche che mettono in moto questo ciclo e per ciò nacque il mito. Questo mito nasce per dare una spiegazione alla realtà e grazie ad esso la realtà assumeva un significato.
Fonte: “Cuzco e la valle sacra degli inca” di Ferdenando E. Elorrieta Salazar e Edgar Elorrieta Salazar. “L’impero inca” di Michael E. Moseley, Newton & Compton edizioni
La fama di Tutankhamon è in gran parte dovuta al ricco tesoro che venne rinvenuto pressoché intatto all’interno della sua tomba nella Valle dei Re. Tra i tanti oggetti recuperati comparvero anche alcune lampade in alabastro finemente lavorate, tra cui quella esposta nelle immagini. Gli artigiani egizi della XVIII dinastia (circa 1300 a.C.) levigarono il minerale della coppa fino a farlo diventare sottilissimo e semitrasparente, successivamente realizzarono e decorarono una seconda coppa di dimensioni più piccole e la inserirono all’interno di quella più grande. Dentro la lampada veniva versato olio di sesamo, o forse di ricino, e lo si faceva bruciare utilizzando uno stoppino galleggiante e quando quest’ultimo veniva acceso, la luce della fiamma faceva apparire un’immagine decorativa altrimenti invisibile. La coppa riproduce la forma di un fiore di loto ed è affiancata su entrambi i lati da una ricca decorazione traforata in cui il dio Heh è raffigurato in ginocchio e con le braccia alzate. Heh è una divinità minore del pantheon egizio, il significato primario del termine “heh” è “milione”, o “milioni” e successivamente una personificazione di heh fu adottata come divinità egizia dell’eternità. In una mano tiene un ramo di palma fuso al bordo della rappresentazione, mentre con l’altra tocca il simbolo “ankh” posto a fianco dei cartigli di Tutankhamon. Questa elaborata decorazione contiene essenzialmente l’auspicio per un lungo regno e quando la lampada veniva accesa, l’immagine che compariva all’interno del fiore di loto rafforzava questo concetto. Tra i simboli geroglifici, il ramo di palma indica un “anno”, mentre il simbolo “ankh” la vita. Tutankhamon è rappresentato a sinistra, seduto sul trono, mentre sua moglie Ankhesenamum, tiene con le mani due lunghi rami di palma simbolo di “milioni di anni”.