I primi contadini del neolitico praticarono la cosiddetta “agricoltura secca”, ciò significa che l’irrigazione dei campi era affidata unicamente alle precipitazioni piovose. La produttività dei primi modelli agricoli doveva sperare in un buon apporto di acqua piovana perciò possiamo immaginare che una sola stagione di siccità avrebbe compromesso la produttività delle coltivazioni, condizionando la vita di un intero villaggio. Questa condizione sfavorevole venne migliorata per la prima volta nel corso del IV millennio a.C. in Bassa Mesopotamia con l’introduzione dell’agricoltura irrigua, basata sullo sfruttamento delle acque fluviali mediante la costruzione di canali che permettevano l’irrigazione periodica e programmata dei campi. L’agricoltura irrigua e altre innovazioni fondamentali vennero introdotte quasi simultaneamente e con successo anche in altre zone del Vicino Oriente dell’Asia. Le civiltà che si svilupparono nel bacino idrografico del Tigri e dell’Eufrate, nella valle del Nilo e lungo il corso dell’Indo, vennero perciò chiamate civiltà fluviali o idrauliche. Intorno ai grandi corsi d’acqua sopracitati nacquero sistemi socio-economici capaci di produrre eccedenze alimentari che potevano sostenere la vita nei centri abitati, favorendo lo sviluppo di una moltitudine di attività commerciali e artigianali. I villaggi sorti nei territori più fertili del Vicino Oriente si ampliarono in maniera esponenziale fino a diventare vere e proprie città caratterizzate da una complessa stratificazione sociale e da un’elevata specializzazione del lavoro: l’agricoltura e la pastorizia erano infatti molto sviluppate e la produzione di eccedenze alimentari permetteva agli abitanti di dedicarsi ad altre attività. Anche i centri di culto ebbero un ruolo importante nello sviluppo delle prime città, dato che divennero poli di attrazione nei confronti dei villaggi vicini sprovvisti di un tempio. Questo fenomeno di accentramento urbano si concretizzò per la prima volta in Bassa Mesopotamia contemporaneamente allo sviluppo della civiltà Sumera. Per indicare le complesse trasformazioni che portarono alla nascita delle città e le conseguenze che tale fenomeno determinò sul piano sociale ed economico, gli storici utilizzano l’espressione “rivoluzione urbana”.
La differenza tra i villaggi neolitici e le prime città non si limitava alle dimensioni, nelle città si svilupparono mano a mano complesse politiche, economie e religioni, determinando una maggiore stratificazione sociale; contadini e i pastori erano impegnati nella produzione del cibo, in minor numero rispetto al passato grazie all’introduzione delle tecniche speciali, gli artigiani lavoravano l’argilla, il cuoio e i metalli, con i quali fabbricavano manufatti di vario genere che potevano essere barattati dai mercanti. Una classe amministrativa controllava la costruzione dei canali e la disposizione dei campi agricoli e registrava la raccolta e la distribuzione dei prodotti alimentari raccolti. I soldati provvedevano alla difesa delle scorte di cibo e delle ricchezze accumulate. I sacerdoti, infine, interpretavano i segni celesti e si occupavano delle cerimonie religiose per far sì che le divinità protettrici si mostrassero benevole nei confronti degli uomini che abitavano la città. L’improvvisa evoluzione dei centri urbani avvenuta in Bassa Mesopotamia nel corso del IV millennio a.C. favorì lo sviluppo di moltissime attività, che per essere controllate e sfruttate a livello economico su tutto il territorio necessitarono di un sistema di controllo indiretto. A questo scopo, nell’arco di un periodo relativamente breve, vennero introdotti segni grafici, pesi di misura e recipienti standard, con i quali si poterono compilare elenchi contabili delle attività commerciali e dei prodotti. L’evoluzione della scrittura cuneiforme fu perciò una conseguenza dell’urbanizzazione.
Sigillo sumero che mostra un’attività agricola. Una bestia da soma trascina l’aratro seminatore (apin) mentre due uomini lo guidano. Questo strumento era dieci volte più efficace della zappa nel lavorare la terra e seminare
La stratificazione sociale sommariamente descritta fu possibili grazie alla produzione di eccedenze alimentari. Le innovazioni tecniche che portarono a questa evoluzione agricola sono perfettamente descritte nel testo sottostante, tratto del libro “Uruk, la prima città” di Mario Liverani.
Tratto da”Uruk, la prima città” di Mario Liverani. Edizione Laterza
La questione dell’accumulazione primaria di eccedenze alimentari, in termini che siano archeologicamente verificabili, può porsi nel modo seguente: nella fase immediatamente anteriore al decollo urbanistico e organizzativo della grande Uruk (tardo-Uruk, ca. 3500-3000) possono individuarsi fattori tecnici o di altra natura che accrescano la produzione agricola ad un tasso accelerato e comunque superiore al tasso di aumento demografico? La risposta viene da tutto un complesso di innovazioni da collocarsi (come vedremo) durante la fase antico-Uruk (ca, 4000-3500), e che sono correlate tra di loro a comporre un complesso organico e inscindibile. La documentazione relativa è solo in parte ben nota, in parte invece non ancora adeguatamente valutata – e certo non valorizzata in riferimento al problema della rivoluzione urbana.
Il campo lungo. La necessità di una sistemazione idraulica del territorio basso-mesopotamico, come fattore indispensabile per la crescita demografica, produttiva e organizzativa sfociata nella prima urbanizzazione, era ben presente fin dal tempo di Childe. E del resto la coincidenza delle zone di alluvio irriguo con le sedi delle più antiche civiltà era un fatto già avvertito dagli studiosi del secolo scorso, e che darà luogo alla famigerata (e certamente abnorme) teoria del <<dispotismo idraulico>> come definito da Karl Wittfogel. Ma solo di recente si è messo in evidenza come il momento essenziale in tale processo sia stata la messa a punto del sistema dei campi lunghi, con irrigazione a solco. Nell’alluvio basso-mesopotamico sono storicamente attestati due sistemi di irrigazione, ben diversi tra loro: l’irrigazione a bacino e l’irrigazione a solco, rispettivamente adattabili meglio alle due sotto-zone idrologiche e geo-morfologiche della <<valle>> e del <<delta>>. L’irrigazione a bacino, che comporta la completa sommersione del campo sotto un sottile strato d’acqua (poi rapidamente assorbito da terreno per percolazione verticale), viene praticata in campi quadri recintati da un piccolo argine. Questi campi sono necessariamente di modeste dimensioni e perfettamente orizzontali (altrimenti la sommersione non sarebbe omogenea), e possono essere sistemati anche individualmente, a livello famigliare, e con modesta necessità di coordinamento con i campi contigui. Comportano dunque una gestione di ambito famigliare e di villaggio, e una sistemazione idraulica del territorio per aggiustamenti parziali e progressivi, senza bisogno di particolare pianificazione e centralizzazione. Invece l’irrigazione a solco viene praticata in campi lunghi, sottili striscie parallele tra loro, che si estendono in lunghezza per molte centinaia di metri, in leggera e regolare pendenza, e che hanno una <<testata alta>> adiacente al canale da cui ricavano l’acqua, e una <<testata bassa>> verso acquitrini o bacini di drenaggio. L’acqua inonda solo i solchi, e il terreno è imbevuto per percolazione orizzontale. Questi campi, data la loro dimensione e il loro rigido posizionamento rispetto al canale, possono essere convenientemente sistemati solo in maniera coordinata e pianificata, colonizzando ex novo un’area piuttosto estesa, con grossi blocchi di campi paralleli ordinatamente disposti a spina di pesce ai lati del canale. La costante inclinazione del terreno si adatta alla morfologia del delta, con canali sopraelevati (per accumulo di sedimenti) entro i loro argini, e bacini o paludi laterali di sfogo dell’acqua eccedente. I campi lunghi dunque richiedono per l’impianto e la gestione la presenza di un’agenzia centrale di coordinamento. Una volta istallati, consentono una produttività su più larga scala, in connessione con le altre innovazioni che vedremo subito. I campi lunghi – che la documentazione successiva mostra prevalenti nel sud basso-mesopotamico – sono già ben presenti nella prima documentazione amministrativa <<arcaica>> di Uruk III (sia nel sud sia nel nord); e sono del resto implicati dalla forma stessa del segno arcaico sumerico per <<campo>> (gan2) che chiaramente riproduce un blocco di campi lunghi perpendicolari ad un canale. Nei testi amministrativi arcaici, i campi lunghi sono organizzati in blocchi di grandi dimensioni, e di gestione centralizzata (nella fattispecie templare).
Aratro seminatore sumero. Nel sigillo della fig.1 il dio Enlil lo impugna nella mano destra, nella fig.2, invece, viene tirato da una bestia da soma.
L’aratro seminatore. La lavorazione del campo lungo è strettamente connessa all’introduzione dell’aratro a trazione animale, che solo può consentire di scavare solchi rettilinei della lunghezza di molte centinaia di metri. Lo stesso aratro può a sua volta aver contribuito (assai secondariamente rispetto ai problemi dell’irrigazione) a configurare i campi lunghi, facendo risparmiare (a parità metrica di solco) i momenti della rotazione e riposizionamento: si tenga presente che i testi posteriori documentano che l’aratro era trainato da due o tre coppie di buoi, e dunque qualcosa di tutt’altro che maneggevole. E’ comunque evidente che l’aratro a trazione animale comporta un risparmio di tempo enorme rispetto all’esecuzione dello stesso lavoro alla zappa, a parità numerica di personale impiegato. La triplice connessione <<campo lungo – irrigazione a solco – aratro a trazione animale>> è talmente stretta e organica che non si potrebbe immaginare il funzionamento del sistema se non nella sua coerente completezza. Al momento della semina, poi, l’aratro a trazione animale si trasformava in aratro-seminatore, mediante l’istallazione di un imbuto a cannello che consente di mettere a dimora i semi – uno per uno – ben addentro il solco. L’uso dell’aratro-seminatore porta a minimizzare le perdite di semente rispetto alla semina per dispersione, e dunque a migliorare (nell’ordine del 50%) il rapporto tra semente e raccolto. Ciò contribuisce a spiegare l’altissima produttività della cerealicoltura basso-mesopotamica (famosa già per Erodoto, e confermata dai dati testuali) che resterebbe stupefacente col sistema della semina manuale per dispersione. Naturalmente la collocazione a dimora dei singoli semi, ben addentro nel solco, è praticabile solo mediante l’aratro seminatore a trazione animale, altrimenti (con operazione manuale) richiederebbe un tempo enorme. Se raffigurazioni complete dell’aratro-seminatore all’opera risalgono solo ad epoche più tarde, però il relativo segno sumerico apin è già ben attestato nei documenti arcaici di Uruk IV e III.
La slitta trebbiatrice. L’utilizzazione della trazione animale – con conseguente risparmio di tempo e manodopera – si applica anche ad altre due operazioni: la trebbiatura e il trasporto del raccolto. La trebbiatura viene praticata in apposite aie, mediante una slitta trainata da un asino, con numerose file di lamette di selce inserite sotto il pianale. E’ l’attrezzo chiamato tribulum dia latini, e attestato ancora in età moderna (prima dell’avvento della meccanizzazione) in un’ampia area che abbraccia il Vicino Oriente e il Mediterraneo. Per il periodo di Uruk, se ne hanno attestazioni iconografiche; e si hanno anche concentrazioni di lamette di selce spiegabili come appartenenti a slitte da trebbiatura. Il caratteristico <<lustro>> che le lamette di selce acquistano col ripetuto taglio di spighe di cereali, e che tradizionalmente è fatto risalire all’uso delle lamette nei falcetti da mietitura, può altrettanto bene risalire al loro uso nelle slitte da mietitura. Tra i segni della scrittura arcaica di Uruk IV-III è anche attestato (peraltro raramente) il carro a quattro ruote, evidentemente impiegato per il trasporto del raccolto. In generale, la diffusione della trazione animale rientra in quella che è stata definita <<rivoluzione secondaria>> (rispetto alla rivoluzione agro-pastorale all’inizio del neolitico), che ebbe luogo nel millennio a ridosso dei processi della prima urbanizzazione. Si noti peraltro che i bassa Mesopotamia (come pure nella valle del Nilo, e in gene nelle vallate alluvionali) il mezzo più economico ed efficiente per il trasporto del raccolto dai campi alle aie e dalle aie ai magazzini era costituito dalla barche, che potevano usare la fitta rete di canali e rami fluviali.
I falcetti di terracotta. Infine, la mietitura di grandi estensioni cerealicole si avvale di un attrezzo quale il falcetto di terracotta, a forma di mezzaluna e col bordo interno affilato, il cui costo di manifattura è estremamente basso in confronto a qualunque altro tipo di lama (di selce, per non dire poi di metallo), e consente dunque l’utilizzo simultaneo di manodopera numerosa. Il falcetto di terracotta, presumibilmente di tipo <<usa e getta>>, stante il rapido deterioramento dell’affilatura, non ricostruibile, caratterizza la bassa Mesopotamia nel periodo tardo -Ubaid e antico-Uruk, dunque proprio il periodo formativo del sistema di cerealicoltura intensiva quei delineato.
Lettura consigliata da Civiltà eterne.it
Fonte:
“Uruk, la prima città” di Mario Liverani. Edizione Laterza
Bisogna riconoscere che quando noi pensiamo all’uomo della preistoria commettiamo generalmente due grandi ingiustizie nei suoi confronti, sottovalutandone enormemente alcuni aspetti. Sicuramente l’uomo neolitico possedeva meno informazioni rispetto a noi, ma un conto è poter usufruire di numero inferiore di nozioni, un altro è avere una differente predisposizione al ragionamento.Da questo punto di vista, dobbiamo immaginare che il nostro antico progenitore avesse una curiosità intellettuale analoga alla nostra, una capacità di ragionamento simile e che si ponesse già in maniera critica di fronte ai problemi e ai fenomeni naturali. Se pensiamo alla raffinata sensibilità degli artisti che decorarono le grotte di Altamira, in Spagna, o quelle di Lascaux, in Francia, non possiamo non riconoscere nella mano che ha tracciato quelle figure una sensibilità almeno pari alla nostra. La seconda grande ingiustizia che commettiamo nei confronti dell’uomo della preistoria consiste nel sottovalutare enormemente la sua completa e assoluta integrazione nell’ambiente naturale che lo circondava.
Tratto da “Cieli perduti, Archeoastronomia: le stelle dei popoli antichi” di Guido Cossard, UTET 2010, DeA Planeta libri 2018. Pag.5
Le indagini sul genoma umano hanno dimostrato che le qualità genetiche della nostra specie erano già formate quando i nostri antenati migrarono dall’Africa al Vicino Oriente, all’incirca 60.000 anni fa e che le piccole variazioni del genoma avvenute a partire da quell’epoca non sono sufficienti per giustificare l’enorme complessità di comportamenti acquisiti dall’uomo nelle epoche più recenti della storia. La transizione tra la vita nomade e quella sedentaria ebbe inizio soltanto attorno al 12.000 a.C. nelle regioni del Levante, ciò significa che coloro che vissero in quelle regioni durante il Paleolitico non modificarono il loro regime di sussistenza per almeno 50.000 anni. La sedentarietà favorì invece lo sviluppo di numerose innovazioni tecniche e sociali concatenate e di ulteriori trasformazioni dei modi di vivere a cominciare dalla sostituzione del regime di sussistenza basato su caccia e raccolta che nell’arco di un tempo relativamente breve venne sostituito con un’economia di villaggio incentrata sull’addomesticamento delle piante e degli animali selvatici.
Se le qualità genetiche della nostra specie si erano già formate 60.000 anni fa, come mai ci vollero 50.000 anni prima che si verificasse un significativo progresso sociale e tecnologico? E per quale motivo l’adozione di una dimora fissa fece scattare la scintilla nel motore del progresso?
Il Paradosso preistorico verte proprio sullo scarto temporale che separa la formazione del genoma umano moderno e il “decollo” socio-culturale.
Oggi sappiamo per certo che l’evoluzione culturale e tecnologica dell’Homo sapiens non fu determinata da nuove qualità genetiche emerse improvvisamente all’alba del neolitico e che le abilità cognitive degli uomini delle caverne non erano inferiori a quelle di coloro che gettarono le basi della civiltà durante la rivoluzione neolitica, o rispetto agli stessi uomini del ventunesimo secolo; dunque quale è la sostanziale differenza tra queste generazioni di uomini?
Durante il Paleolitico lo sviluppo di un linguaggio articolato facilitò la condivisione delle esperienze personali e la trasmissione del sapere favorendo la formazione di un “bagaglio culturale” comune. Con il passare dei millenni l’accrescimento del sapere fece sì che ogni individuo potesse beneficiare dell’esperienza accumulata dalle precedenti generazioni, tuttavia la condivisione delle esperienze personali fu drasticamente limitata per tutta la durata del Paleolitico a causa dall’esiguo numero di persone che vivevano a stretto contatto tra loro; ogni clan nomade era infatti composto da non più di 20 o 30 individui. Inoltre il nomadismo bloccò lo sviluppo della cultura materiale dato che la dimensione e la quantità degli strumenti concepiti doveva essere rapportata all’esigenza di un bagaglio ridotto per non appesantire i frequenti spostamenti sul territorio.
Lo sviluppo dei primi insediamenti stabili e la possibilità di poter accumulare gli oggetti e le risorse determinò un importante aumento demografico; cosicché sempre più persone si trovarono a confrontare vicendevolmente le proprie esperienze personali; dalle interazioni quotidiane negli spazi condivisi dei villaggio derivarono infatti conoscenze e relazioni condivise. La condivisione del sapere all’interno delle comunità sedentaria fu terreno fertile per la sperimentazione delle idee e per l’accrescimento della conoscenza, mettendo in luce le abilità concettuali dell’uomo, che per ovvie ragioni non potevano essersi formate di punto in bianco all’alba della rivoluzione neolitica ma dovevano essere latenti nella mente umana già da decine di migliaia di anni.
L’arretratezza tecnica e sociale dei nostri antenati è forviante in quanto coloro che trovano riparo nelle caverne vivendo di caccia e raccolta non erano meno intelligenti di coloro che iniziarono a produrre il cibo in maniera autonoma, o di coloro che fondarono città, stati e imperi, semplicemente erano meno sapienti in quanto potevano beneficiare di un bagaglio culturale estremamente ridotto rispetto a quello delle più recenti generazioni di uomini. Tale bagaglio culturale iniziò ad arricchirsi grazie alla sedentarietà e all’aumento demografico. L’adozione di una casa cambiò radicalmente la condizione umana permettendo l’addomesticamento delle piante e degli animali e favorendo lo sviluppo di tecniche speciali destinate alla trasformazione e conservazione delle risorse alimentari. Lungo le sponde dei grandi corsi d’acqua della Mesopotamia nacquero inoltre i primi sistemi socio-economici capaci di produrre eccedenze alimentari (rivoluzione neolitica secondaria) favorendo lo sviluppo delle attività artigianali e commerciali. I villaggi sorti nei territori più fertili del Vicino Oriente si ampliarono in maniera esponenziale fino a diventare vere e proprie città caratterizzate da una complessa stratificazione sociale e da un’elevata specializzazione del lavoro. Lo sviluppo dei primi sistemi di scrittura favorì poi la gestione dei rapporti sociali e l’accrescimento del sapere. Non è un caso che lo sviluppo delle prime civiltà storiche coincida con l’introduzione di un sistema indiretto capace di conservare le informazioni.
L’istruzione è fondamentale per poter accedere alle capacità concettuali della mente, oggi come 60.000 anni fa. I bambini nati al giorno d’oggi nei paesi sviluppati possono beneficiare fin dai primi anni della loro vita degli insegnamenti forniti dai sistemi scolastici, oltre a ciò il contesto sociale in cui vivono gli dà accesso ad una quantità incalcolabile di informazioni che stimolano lo sviluppo dell’intelletto fino all’età adulta. La maggior parte delle informazioni acquisite da un individuo nell’arco della propria vita provengono delle esperienze che il genere umano ha maturato nel corso di migliaia di anni, perciò il bagaglio culturale accumulato di generazione in generazione dà modo ad ogni futuro uomo di conoscere il mondo che lo circonda senza doverlo scoprire unicamente con le proprie forze. I bambini nati in un contesto rurale di inizio secolo scorso, invece, avevano accesso ad una quantità di informazioni molto più limita, e per lo più legate alle attività che dovevano svolgere per garantirsi il sostentamento. Le capacità concettuali sviluppate dalle loro menti furono perciò limitate rispetto al loro effettivo potenziale. Un ipotetico confronto tra un individuo istruito in tempi recenti e uno vissuto nel dopo guerra in un contesto di vita contadina evidenzierebbe enormi differenze, col risultato che il secondo sembrerebbero molto meno intelligente rispetto al primo malgrado potenzialità intellettive sommariamente equivalenti. Lo stesso discorso è valido nel contesto di un confronto tra un uomo del ventunesimo secolo e un uomo dell’età della pietra, dato che le variazioni del genoma avvenute negli ultimi 60.000 anni sono talmente piccole da potersi considerare in tal senso trascurabili.
E’ stato l’accrescimento del sapere, maturato anche grazie all’acquisita capacità di saperlo tramandare alle successive generazioni, a determinare lo sviluppo sociale e tecnologico dell’uomo; dimostrarlo è estremamente semplice utilizzando un secondo esempio. Se un bambino di oggi crescesse senza istruzione scolastica e al riparo dal progresso sociale e tecnologico, in condizioni simili a quelle in cui vivevano gli uomini dell’età della pietra, una volta raggiunta l’età adulta apparirebbe sotto certi aspetti “primitivo” e le sue possibilità di comprendere il contesto sociale moderno sarebbero totalmente compromesse.
Sulla base di queste valutazioni gli antropologi dividono la storia dell’evoluzione umana in due periodi, quello di speciazione, e quello tettonico. Nella lunghissima fase di speciazione, iniziata diversi milioni di anni fa, furono le variazioni del genoma a dominare il processo evolutivo, portando all’acquisizione di nuovi comportamenti. Due esempi lampanti potrebbero essere rappresentati dalla capacità di camminare in posizione eretta e dalla capacità di esprimere un linguaggio, due comportamenti che per essere sostenuti dovevano necessariamente contare su nuove qualità genetiche emerse ad un certo punto dell’evoluzione. Nella fase tettonica, invece, fu l’accrescimento del sapere a determinare l’acquisizione di nuovi comportamenti; un esempio potrebbe essere rappresentato dalla capacità maturata dall’uomo di produrre in maniera autonoma il cibo necessario alla propria sussistenza, sviluppata nell’arco di molte generazioni, nelle quali vennero selezionate le piante e gli animali più adatti sulla base delle esperienze personali. Chiaramente l’evoluzione genetica è continuata anche durante la fase tettonica, ma il suo contributo all’acquisizione di nuovi comportamenti è stato estremamente inferiore rispetto a quello determinato dalla condivisione delle esperienze personali e dalla capacità di conservare il sapere a beneficio delle future generazioni.