Gobekli Tepe è un sito archeologico ubicato nell’odierna Turchia a circa 20 chilometri dalla città di Şanlıurfa. Gli scavi del sito, iniziati nel 1995, hanno portato alla luce i resti di un monumentale santuario di pietra, le cui parti più antiche sono state datate al 9.500 a.C. La sua erezione coinvolse presumibilmente centinaia di persone ma nelle aree limitrofe non è stata trovata alcuna traccia di agglomerati urbani, soltanto esigui resti materiali riconducibili ad un’occupazione stabile non urbanizzata, il che fa supporre che una società di cacciatori-raccoglitori stanziale e segmentata si adoperò per realizzare santuari circolari con muri di pietra a secco e per erigere imponenti pilastri che potessero accentrare le concezioni religiose di una società ampiamente distribuita sul territorio. Punte di freccia in selce rivenute nei pressi del santuario dimostrerebbero infatti che vi fu un’intensa attività venatoria, il che fa presupporre che questa regione fosse un tempo verdeggiante e frequentata da selvaggina di vario genere. Il santuario, presumibilmente utilizzato per celebrare riti comunitari, presenta caratteristici pilastri di pietra calcarea a forma di T, alcuni dei quali sono alti più di 5 metri. La maggior parte dei pilastri furono scolpiti in bassorilievo con immagini di animali mentre altri riproducono astrattamente la forma umana, mostrando anche etnici capi di abbigliamento come cinture e perizomi. Recenti lavori di scavo hanno inoltre individuato resti di strutture riconducibili ad ambienti domestici, forse destinati ad ospitare una ristretta cerchia di persone. I clan di cacciatori-raccoglitori che costruirono il santuario monumentale si radunarono invece a gruppi nei dintorni del santuario, trovando riparo all’interno di tende realizzate con la pelle degli animali cacciati.
Uno dei recinti di pietre di Gobekli Tepe, delimitato dai caratteristici pilatri a T. fonte immagine
Precedentemente alla scoperta di Gobekli Tepe le indagini pionieristiche in Medio Oriente avevano portato alla ferma convinzione che la costruzione dei primi luoghi di culto fosse avvenuta in seguito allo sviluppo dei primi agglomerati urbani ma la scoperta di Gobekli Tepe ha cambiato le carte in tavola mostrandoci il prodotto di un convincimento spirituale profondo e radicato che anticipa lo sviluppo dei primi centri urbani. Gobekli Tepe è il più antico esempio di architettura monumentale al mondo, o per lo meno il più antico ad essere stato rinvenuto; le indagini strumentali gli attribuiscono un’età compresa tra i 12.000 e 13.000 anni e ciò significa che la sua costruzione avvenne addirittura 6500 anni prima di Stonehenge e 7000 anni prima delle piramidi di Giza, ma anche 7.000 anni prima del sito sahariano di Nabta Playa, che costudisce ciò che fino a 25 anni fa veniva considerato il più antico osservatorio astronomico al Mondo. A Gobekli Tepe le coppie centrali di pilastri a T di ogni recinto di pietre sono orientamento in direzione Sud-Est costituendo un immaginario canale di osservazione verso una determinata regione del cielo.
Le comunità di cacciatori-raccoglitori che costruirono le monumentali strutture megalitiche di Gobekli Tepe vissero durante la transizione più importante della storia umana, a cavallo tra l’adattamento alla sedentarietà e lo sviluppo delle prime strategie di sussistenza produttive. L’archeologo Klaus Schmidt che raggiunse il sito nel 1994 per dirigere gli scavi di Gobekli Tepe disse: “Non appena ho visto le pietre, seppi che, se non me andavo immediatamente, sarei rimasto qui per il resto della mia vita”. A distanza di molti anni dall’inizio degli scavi lo stesso archeologo affermò che a suo parere l’arida collina su cui sorgeva Gobekli Tepe poteva essere il mitico giardino dell’Eden descritto nella Genesi biblica. Il famoso mito descrive un’umanità innocente che poteva nutrirsi con i frutti spontanei della natura, con la caccia e con la pesca, e che poteva trascorrere il resto del tempo a riposare o in attività di piacere. Il mito prosegue con la distruzione di questa condizione idilliaca a causa dello stesso comportamento umano, che per sua inobbedienza alle regole del Signore fu punito con l’obbligo di dover provvedere al proprio sostentamento, lavorando la terra con fatica incessante e quotidiana.
Le indagini strumentali più moderne hanno dimostrato l’estrema durezza dell’agricoltura neolitica e la relativa indolenza della caccia e della raccolta dei frutti spontanei, dunque è logico chiedersi quali furono i motivi che spinsero l’uomo ad adottare strategie produttive; Klaus Schmidt imputò questa trasformazione all’aumento demografico. Secondo la sua opinione i cacciatori e raccoglitori predarono tutte le risorse disponibili, compromettendo l’equilibro dell’ecosistema e per tanto cominciarono a coltivare in autonomia le erbe selvatiche sulle colline per soddisfare i bisogni alimentari di una popolazione in continuo aumento, ottenendo controparti domestiche. Oggi il territorio che circonda Gobekli Tepe è estremamente arido ma in passato non fu così; lo dimostrano le moltissime punte di freccia rinvenute, ma anche le riproduzioni faunistiche realizzate sui pilatri di pietra. In passato questa era una regione privilegiata, in cui esistevano prati, boschi, frutteti, fiumi e numerose specie animali. Col tempo l’aumento demografico portò ad un eccessivo consumo di piante e frutti e alla scomparsa di molte specie selvatiche. L’avvio dell’agricoltura accelerò ancor di più la distruzione dell’ecosistema naturale e così ciò che in principio era un’oasi verde e produttiva fu trasformata una terra arida lavata dal sudore della fronte. Il mito dell’Eden potrebbe pertanto essere un allegoria costruita dagli agricoltori neolitici sulla memoria di un tempo in cui l’uomo non doveva lavorare la terra per vivere, in cui tutto ciò di cui aveva bisogno gli veniva donato dalla natura, e l’opera monumentale di Goblekli potrebbe essere un santuario costruito dai cacciatori-raccoglitori per celebrare i convincimenti spirituali e religiosi legati al mondo naturale e alla sua rigenerazione. Di fatto non è un caso che l’agricoltura abbia fatto la sua comparsa in quei pochi luoghi del pianeta in cui vi fossero risorse alimentari sufficienti e ripartite nell’arco di tutto l’anno, e dove l’uomo ha potuto adattarsi gradualmente al regime di vita sedentario.
Naturalmente, tutte queste teorie potrebbero essere respinte e classificate come pure speculazioni. Tuttavia, vi è abbondanza di prove storiche per dimostrare che gli scrittori della Bibbia, quando parlavano dell’Eden, descrivevano in realtà questo angolo di Anatolia abitato dai Curdi. Nel libro della Genesi, è indicato che l’Eden è a ovest dell’Assiria. Gobekli Tepe si trova in tale posizione. Allo stesso modo, il biblico Eden è attraversato da quattro fiumi, tra cui il Tigri e l’Eufrate, e Gobekli Tepe si trova tra due di questi. Questo piccolo regno era a circa 40 km da Gobekli Tepe. Un altro libro dell’Antico testamento parla dei “bambini di Eden, che erano in Thelasar”, una città nel nord della Siria, vicino a Gobekli Tepe. La stessa parola “Eden” deriva dal sumerico e significa “pianura”; Gobleki Tepe si trova nella pianura di Harran. Così quando si mette tutto insieme la prova sembra essere ragionevolmente convincente.
Tratto da “Le Pietre degli Dei, Astronomia e antica architettura megalitica in Europa” di Adriano Gaspani. Ed. Associazione Culturale Fonte di Connla, 2014. pag.122-123
fonte:
“Le Pietre degli Dei, Astronomia e antica architettura megalitica in Europa” di Adriano Gaspani. Ed. Associazione Culturale Fonte di Connla, 2014. pag.122-123
fonte immagine in testata:https://www.storicang.it/a/gobekli-tepe-il-primo-tempio-della-storia_14826
Parziale ricostruzione del tetto di un’abitazione natufiana nel sito di Beidha, Giordania. fonte immagine. Copyright Michael D. Gunther
Il fiume Giordano scorre verso sud seguendo la depressione tettonica che delimita il confine tra Giordania e Cisgiordania, per poi sfociare all’interno del Mar Morto, il bacino endoreico più profondo al mondo. I cacciatori-raccoglitori del Paleolitico percorsero questo ambiente relativamente arido fin dai tempi più antichi, spostando la posizione dei loro accampamenti in maniera periodica per seguire le gazzelle selvatiche e altri animali durante le loro migrazioni stagionali e per approfittare dei frutti spontanei della natura nei luoghi e nei momenti più opportuni. Questo regime di sussistenza perdurò fino allo sviluppo di oasi fertili e produttive, ricche di foraggio in ogni stagione dell’anno. Nel X millennio a.C. alcuni nuclei di uomini piantarono radici in questi luoghi privilegiati, costruendo accampamenti stabili che nel corso del tempo vennero sostituiti con vere e proprie abitazioni di fango e pietra; quando quest’ultime non furono più adatte ad ospitare una società che cresceva e si strutturava ne costruirono di nuove sulle macerie di quelle precedenti, innumerevoli volte nell’arco di novemila anni. La ripetuta sovrapposizione di complessi abitativi ha creato Tell es-Sultan, una collinetta artificiale composta da fango, pietra e limo. L’accumulo di materiali edili e la conseguente erosione determinata dagli eventi atmosferici si verificò ripetutamente nell’arco di migliaia di anni, offrendo ai ricercatori di oggi una situazione archeologica privilegiata; gli strati accumulati nel sito di Tell-el-Sultan rivelano infatti la sequenza cronologica delle attività umane svolte nel sito, documentando l’evoluzione tecnologica e sociale avvenuta all’alba della civiltà e oltre, dal paleolitico superiore ai tempi più recenti. Tell-el Sultan non è l’unico esempio di questo genere, il fenomeno dei tell (“collina” in arabo) ha interessato decine di centri abitati della Mezzaluna Fertile, restituendo al presente i resti stratificati di numerosi villaggi mesolitici e neolitici.
Gli scavi più profondi realizzati nel sito di Tell es-Sultan hanno portato alla luce i resti di un insediamento stabile del 9500 a.C. attribuito alla cultura natufiana e gli strumenti litici utilizzati suoi abitanti durante le attività di caccia e raccolta. Questa cultura mesolitica, diffusa dalle coste del Levante al Medio corso dell’Eufrate, si distingue nettamente da quelle epipaleolitiche nomadi che la precedettero per la tendenza a risiedere permanentemente nello stesso luogo.
Abitazione natufiana. fonte immagine. Copyright Anton Ivanov / Shutterstock
Il natufiano è dunque l’epoca cerniera durante la quale si andò a compiere la prima transizione tra la vita nomade e quella sedentaria, preparando i presupposti per la rivoluzione neolitica, intesa come il processo nel corso del quale le comunità umane sono passate dalla predazione alla produzione di sussistenza. L’adozione di una dimora fissa fu determinata dalla presenza di risorse alimentari sufficienti e ripartite nell’arco di tutto l’anno, a tal punto da rendere inutili gli spostamenti stagionali ma anche da una trasformazione socio-cognitiva costruita mentalmente.
Le prime abitazioni rinvenute mostrano ambienti circolari semi-interrati che si allungano in corrispondenza dell’ingresso assumendo una forma che è stata definita “ad utero”. Esse sono costituite da una base di pietrisco, da pali di legno infissi nel terreno lungo tutto il perimetro e da pareti realizzate con canne e fango, l’interno è invece rivestito con un intonaco di gesso che dal pavimento risale sulle pareti senza soluzione di continuità creando un morbido profilo concavo dipinto con ocra rossa o gialla. Gli strati d’intonaco che si sono potuti osservare mostrano ripetuti rifacimenti di valenza rituale: all’interno dell’intonaco furono infatti inseriti semi o frutti combusti e resti di animali selvatici per propiziale la prosperità del nucleo famigliare. Questa casa, rotonda e senza finestre, dipinta con l’ocra rossa, rappresenta la casa dove siamo nati tutti, l’accogliente e protettivo ventre di una madre.Le prime abitazioni ad essere fabbricate dall’uomo mostrano pertanto una chiara continuità ideologica con la concezione paleolitica del rifugio in grotta, ovvero quella di trovare riparo all’interno del ventre protettivo della Madre Terra. (Lorenzo Nigro, 2019)
fonte immagine in testata:http://www.art-and-archaeology.com/ Copyright Michael D. Gunther
fonti: “Gerico, la rivoluzione della preistoria” di Lorenzo Nigro, MAPG-Edizioni <<il Vomere>>, 2019. Pag.36-37-38 “Ritorno a Gerico, scavare tra archeologia e leggenda”, Lorenzo Nigro, pubblicato su Archeo, attualità del passato “Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini
Titolo originale “Naissance des divinitè. Naissance de l’agricolture. La révoution des symboles au Néolithique”, 1994 CNRS Editions, Paris
Tra il 12.500 e 10.000 a.C. emerse in tutto il Levante la cultura natufiana, una cultura preagricola parzialmente sedentaria sostenuta dalla predazione di un ampio insieme risorse. La raccolta dei cereali selvatici rappresentava un’importante fonte di sostentamento nelle valli alluvionali e nelle regioni pedemontane limitrofe, insieme a legumi, mandorle, ghiande e pistacchi. Nelle regioni della steppa invece si sopperiva ai bisogni alimentari principalmente con l’attività venatoria, soprattutto seguendo e cacciando i branchi di gazzelle, mentre l’uro, il cinghiale e i caprini venivano cacciati in maniera occasionale. Gli uccelli acquatici e i pesci d’acqua dolce erano alla base della dieta alimentare di coloro che vivevano a ridosso degli ambienti lacustri e lungo le sponde dei fiumi mentre sulla costa si pescavano pesci e molluschi. Questa cultura mesolitica si distingue nettamente da quelle epipaleolitiche nomadi che la precedettero per la tendenza a risiedere permanentemente nello stesso luogo. La stanzialità di alcuni clan natufiani fu infatti determinata dalla presenza di risorse alimentari sufficienti e ripartite nell’arco di tutto l’anno, a tal punto da rendere inutili gli spostamenti stagionali. Questa eccezionale abbondanza di risorse alimentari, contrapposta alla povertà paleolitica, fu conseguenziale al riscaldamento climatico globale che mise fine all’ultimo periodo glaciale all’incirca 14.000 anni fa. Sebbene questo cambiamento abbia interessato tutto il pianeta è proprio nel Vicino Oriente, e in particolare nell’area del Levante, che i suo effetti furono maggiormente favorevoli per la vita dell’uomo; è così che i cereali selvatici hanno potuto occupare le terre fertili tra la montagna e la steppa che vanno dalla valle del Giordano a quella del Medio Eufrate, passando dalle sponde dei laghi della regione di Damasco, fino a raggiungere il Sud-est dell’Anatolia. In queste regioni i cacciatori raccoglitori del natufiano costruirono i loro campi-base, piccoli abitati costituiti da capanne circolari interrate, con pareti di pietre a secco in alcuni casi intonacate; tracce di pali concentrici rinvenuti nel sito di Eynan attestano la presenza di strutture abbastanza robuste da sostenere un tetto. Tra i resti di queste abitazioni sono stati inoltre trovati pozzetti per il deposito dei cereali e pesanti strumenti di pietra, macine e mortai, che suggeriscono il periodico riutilizzo dell’abitato e delle attrezzature. I manufatti recuperati in vari siti, tra cui Nahal Oren, Eynan e Gilgal, mostrano un vasto campionario di oggetti in osso, soprattutto lame, punte da getto, ami e corpi d’utensili composti, mentre l’insieme degli oggetti realizzati in pietra ci dice che l’industria litica aveva abbandonato le forme triangolari e trapezoidali epipaleolitiche in favore della forme semicircolari. I defunti venivano interrati sotto le abitazioni o raggruppati all’esterno di esse in sepolture collettive accompagnati da oggetti rituali, come bracciali, parures di conchiglie, pendenti e corredi funerari. Malgrado l’assenza di un’economia produttiva tutti questi elementi suggeriscono inequivocabilmente lo sviluppo di un’occupazione permanente.
L’esordio del regime di vita sedentario presso alcuni clan natufiani presuppone anche una maggiore cooperazione tra gli individui e una significativa evoluzione sociale, in particolare per la raccolta dei cereali selvatici concentrata nel periodo della loro maturazione e per le attività che concernono alla conservazione e trasformazione dei prodotti. Furono proprio i benefici ottenuti da queste attività ad incoraggiare la completa transizione tra la vita nomade e quella sedentaria, ancor prima dell’introduzione delle tecniche agricole. Sebbene i primi villaggi e la sedentarietà furono gli aspetti fondamentali e rivoluzionari del periodo, non tutti i natufiani adottarono uno stile di vita stanziale, come nelle zone della steppa ad esempio, più secche e meno ricche di piante commestibili, dove l’abitudine al nomadismo determinata dalla predominanza dell’attività venatoria permase fino all’introduzione delle strategie agricole produttive.
Il natufiano è l’epoca cerniera durante la quale si andarono a preparare i presupposti per la transizione neolitica, intesa come il processo nel corso del quale le comunità umane sono passate dalla predazione alla produzione di sussistenza.[1] Sebbene non si possa attribuire ai natufiani la prescienza sulle strategie di sussistenza future è importante sottolineare che gli uomini del neolitico non dovettero inventare nessun nuovo strumento per realizzare le loro strategie produttive; tutto ciò che serviva esisteva già durante il natufiano e anche prima presso le società di cacciatori-raccoglitori.
Non ci deve confondere l’effettiva presenza di tutti gli utensili <<tipicamente agricoli>> che utilizzeranno più tardi gli abitanti dei villaggi del neolitico: falci, attrezzatura da macina ed anche, a Mureybet natufiano, accette di selce tagliate quasi identiche a quelle che saranno, 2000 o 3000 anni più tardi, le zappe dell’area irachena d’Hassuna, e quelle della civiltà mesopotamica d'<<Obeid>>. Ma sono, a Mureybet, strumenti di carpenteria che nessuno si è ancora sognato di utilizzare per i lavori agricoli, esattamente come le macine natufiane, secondo le tracce del loro utilizzo, che hanno triturato sia l’ocra sia le piante. Questi strumenti diventeranno agricoli solamente dopo aver sottoposto le loro funzioni iniziali ad adattamento o specializzazione.
tratto da “Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini, Pag.43
La presenza di tutti gli strumenti tipicamente neolitici all’interno dei primi insediamenti stabili indusse i ricercatori a credere che il regime e di vita sedentario fosse stato adottato dall’uomo contemporaneamente all’invenzione dell’agricoltura per potersi occupare delle coltivazioni, ma oggi sappiamo che ciò non corrisponde al vero e che lo sviluppo delle prime strategie produttive avvenne in un secondo momento rispetto alle prime esperienze stanziali.
Mortaio in pietra di epoca natufiana proveniente dal sito di Eynan (12.500-9.500). fonte immagine
Ricercatori dell’Università di Copenhagen, di Cambridge e dell’University College di Londra, hanno analizzato alcune tracce di cibo carbonizzato provenienti dal sito natufiano di Shubayqa, localizzato nel Deserto Nero del nord-est della Giordania, scoprendo i resti di un’antica pagnotta schiacciata, cotta dai cacciatori-raccoglitori del natufiano all’inciraca 14.000 anni fa. La produzione del pane potrebbe pertanto essere annoverata tra i tanti fattori che hanno incoraggiato ad avviare le prime strategie produttive incentrate sulla semina delle piante coltivabili. (In testata i resti di un focolare del sito di Shubayqa 1 dove sono stati trovati i resti della prima pagnotta mai rinvenuta. crediti: Alexis Pantos). Nel contesto di un progetto coordinato dall’Università di Stanford e dall’Università israeliana di Haifa sono stati invece analizzati tre mortai di pietra recuperati all’interno della grotta sepolcrale di Raqefet, localizzata nei pressi del Monte Carmleo, in Israele; Le analisi hanno confermato che questi recipienti furono utilizzati 13.000 anni fa per la conservazione di alimenti (tra cui grano, orzo, avena, legumi e fibre di rafia) e per la fermentazione di una bevanda alcolica. Si è scoperto che gli occupanti della Grotta raccoglievano piante e semi e che producevano birra per fini alimentari o rituali. Anche la produzione della birra, al pari di quella del pane, potrebbe aver incoraggiato gli uomini del Levante a coltivare i cereali.
fonti:
“Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini
Titolo originale “Naissance des divinitè. Naissance de l’agricolture. La révoution des symboles au Néolithique, 1994 CNRS Editions, Paris
[1]“Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini, Pag.54
Titolo originale “Naissance des divinitè. Naissance de l’agricolture. La révoution des symboles au Néolithique, 1994 CNRS Editions, Paris
fonti http://gaianews.it/scienza-e-tecnologia/archeologia/pane-precede-4000-anni-la-nascita-dellagricoltura-61379.html#.YDvvLGhKiM8 https://www.danielemancini-archeologia.it/la-birra-si-produce-da-13-000-anni/ https://samorini.it/archeologia/asia/bevande-alcoliche/origini-birra/
https://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_natufiana fonte immagine in testata:https://archeologiavocidalpassato.com/tag/relitto-intatto-del-mar-nero/
“Dea Madre”, seduta, con accanto due leopardi, rinvenuta a Çatal Höyük (6000-5500 a.C.). Museo della Civilizzazione Anatolica, Ankara
La sopravvivenza delle comunità del passato era strettamente correlata alla ciclica rigenerazione dell’ambiente naturale perciò l’adorazione della natura assunse un ruolo di prim’ordine fin dall’epoca paleolitica. Il calore del Sole, l’acqua corrente, i frutti della terra e gli animali selvatici erano doni preziosi per i nostri antenati pertanto quell’inconoscibile spirito creativo che dona vita a tutte le cose, e il cui eco si rifletteva nella capacità riproduttiva di tutte le donne, non poteva essere rappresentato in altro modo se non con il corpo formoso di una “madre”. Il corpo della donna, come le stagioni, il Sole e la Luna, segue dei cicli e per questo è logico ipotizzare che i nostri antenati lo avessero iconizzato al fine di rappresentare quel principio di vita, morte e rinascita che perpetua tutti i cicli della natura. Gli antichi immaginarono che tutto potesse essere rigenerato da una forza sovrannaturale e siccome il suo influsso benevolo doveva essere sempre presente ovunque l’uomo andasse, era necessario portarlo appresso sotto forma di amuleto, insieme a tutti gli utensili necessari alla sopravvivenza. Nacque pertanto il fenomeno artistico delle “veneri paleolitiche”, piccole statuette che raffigurano il corpo femminile con attributi sessuali pronunciati ritratti con particolare realismo a dispetto del resto del corpo, sempre rappresentato in modo assai approssimativo. Probabilmente queste statuette paleolitiche non erano la rappresentazione di una divinità vera e propria, piuttosto un simbolo ben augurante di fertilità e prosperità.
I concetti spirituali connessi alla fertilità e alla rigenerazione si rafforzarono all’alba del neolitico, all’interno delle prime comunità sedentarie del Medio Oriente. Quanto detto è ben documento nei siti preagricoli del Levante e del medio Eufrate, in particolare a El Khiam, Gilgal, Nahal Oren e Mureybet; quest’ultimo sito in particolare ha fornito documenti molto espliciti: otto statuette femminili scolpite nella pietra, caratterizzate da un accentuato dimorfismo sessuale. In seguito, e durante tutta la storia di Mureybet, delle corna di toro furono sempre inserite nelle pareti degli ambienti domestici al fine di creare una dimensione simbolica di difficile lettura. Attorno al 9500. a.C., in un contesto di sussistenza ancora dominato dalla caccia e dalla raccolta, ma prossimo all’introduzione delle prime economie agricole, furono queste le figure simboliche dominanti, la donna e il toro, che in seguito assumeranno un ruolo di primo piano nell’iconografia religiosa del Vicino Oriente e del Mediterraneo.[1] La taurocatapsi fu un motivo ricorrente dell’arte figurativa dell’età del bronzo, in particolare nella Creta minoica, nell’Anatolia ittita, nel Levante, nell’Asia centrale e nella Valle dell’Indo. Il toro fu inoltre una figura di massima importanza anche nella religione egizia; il culto del toro sacro Apis è infatti attestato fin dalla I dinastia faraonica e i riti connessi a questa figura erano direttamente connessi ai poteri regali del faraone.
Le rappresentazioni del corpo femminile si moltiplicarono durante il neolitico in concomitanza con lo sviluppo delle prime economie agricole materializzando nell’arte figurativa tutti quei convincimenti spirituali connessi al tema della fertilità e della rigenerazione che presero forma nell’immaginario dell’uomo durante il Paleolitico e il mesolitico. Parallelamente alla diffusione delle tecniche produttive la distribuzione delle statuette femminili si estese a tutta la Mezzaluna Fertile, da Cayunu, in Siria, a Tell es-Sawwan, in Mesopotamia, da Jarmo, sui Monti Zargos, a Tell es-Sultan, in Giordania, fino a Çatal Hüyük, in Analtolia, dove sono state rinvenute numerose rappresentazioni della “Dea Madre”, templi a lei dedicati e altri simboli di fertilità.
Sito archeologico di Çatal Hüyük. Anatolia Centrale (7400 a.C. e il 5700 a.C.). fonte immagine
Çatal Hüyük è un’imponente insediamento neolitico dell’Anatolia centrale che fu abitato approssimativamente tra il 7400 a.C. e il 5700 a.C. da una società agricola e pastorale che faceva largo uso di ceramica. I suoi resti sono di fondamentale importanza per l’indagine del culto neolitico della Dea Madre, in particolare per la continuità culturale che emerge con i siti natufiani e neolitici distribuiti nella frangia sud-orientale dell’Anatolia e nelle regioni interne del Levante e del medio Eufrate.
L’archeologo James Mellaart, che nel novembre 1952 scoprì Çatal Hüyük, è sempre stato convinto che qui fosse riposta la chiave delle origini della civiltà nel Vicino Oriente. [5]
“Questa civiltà neolitica non fu creata nel corso di una notte, ma rappresenta il culmine di un processo che deve essere cominciato nel Paleolitico superiore (circa 35.000-10.000 a.C.), epoca in cui apparve l’uomo moderno… Numerosi elementi di Çatal Hüyük mostrano collegamenti col lontano passato: l’antropologia del nucleo della popolazione, l’usanza di seppellire gli scheletri dopo averli colorati con ocra rossa, le pitture decorative dei santuari con l’uso di frammenti di stalattiti per il culto, a reminiscenza dei primitivi santuari realizzati nelle caverne.”
Tratto da “Dove nacque la civiltà” DIJames Mellaart, 1981 Newton Compton. disegni di Shirley Felts e Edgar Holloway ; adattamenti e integrazioni di Anna Enrico; traduzione di Gigliola Giorgi.
Çatal Hüyük è costituito da dieci strati di resti abitativi caratterizzati da piccoli ambienti rettangolari addossati l’uno all’altro. A causa della ripetuta erosione si sono potute conservare soltanto le fondamenta delle abitazioni e la parte inferiore delle pareti, ciò nonostante sono stati recuperati altorilievi di straordinaria bellezza e parziali pitture murarie dall’evidente significato simbolico. I soggetti rappresentati con maggior frequenza sono costituiti da scene di caccia, teste di tori e figure femminili.
Le statuette femminili ebbero una posizione di rilievo anche nell’arte della popolazione di Çatal Hüyük ed è proprio qui che comprendiamo che questa immagine, la cui origine si perde nelle nebbie del Paleolitico, era ormai divenuta una Dea. [2]
Alcune delle più vivaci testimonianze di questa tradizione artistica ginecentrica ci giungono dagli scavi di Mellaart a Çatal Hüyük. Qui, nel più vasto sito neolitico conosciuto del Vicino Oriente, si trovano trentadue acri di resti archeologici. E’ stato scandagliato appena un ventesimo della collina, ma solo con questo scavo è venuto alla luce un periodo che abbraccia all’incirca ottocento anni, pressappoco dal 6500 al 5700 a.C. Si è scoperto un centro artistico notevolmente avanzato, con dipinti murali, rilievi intonacati, sculture di pietra e grandi quantità di statuette d’argilla della Dea, tutti dedicati al culto di una divinità femminile…[…]…<<La civiltà urbana, che è stata a lungo ritenuta un’invenzione della Mesopotamia, ha predecessori in siti come Gerico o Çatal Hüyük, in Palestina e Anatolia, che per molto tempo sono stati considerato arretrati>>. Inoltre, ora conosciamo un altro fattore molto importante per lo sviluppo iniziale della nostra evoluzione culturale: in tutti i luoghi dove avvennero i primi grandi progressi della nostra tecnologia materiale e sociale, per usare la frase che Merlin Stone ha immortalato in un titolo di un libro, Dio era una donna.
Tratto da “Il calice e la spada, la civiltà della Grande Dea dal neolitico ad oggi” di Riane Eisler, FORUM editrice universitaria Udine (terza stampa 2018, Traduzione curata da Vincenzo Mingiardi). Pag 56-57
A Çatal Hüyük sono stati rinvenuti altorilievi monumentali della Dea, con braccia e gambe divaricate nell’atto di dare alla luce dei tori. I tori tuttavia non furono rappresentati per intero, sotto le immagini della Dea furono infatti realizzate successioni in serie di bucrani d’argilla, tre o quattro, a quali vennero aggiunte le corna dei tori cacciati, o sacrificati. Sui muri degli ambienti domestici di Çatal Hüyük sono stati inoltre rinvenute un numero significativo di appendici cupoliformi, simili a seni femminili, da cui sporgevano oggetti di vario tipo: denti di volpe, grani di donnola e cinghiale, becchi di avvoltoio e altri resti di altri animali selvatici, similmente a quanto rilevato all’interno delle “case utero” dei primi insediamenti stabili del natufiano.[3] Questo curioso assemblaggio di simboli ebbe anche una valenza funeraria dato che gli ambienti domestici erano utilizzati anche come luogo di sepoltura per mantenere i morti nella sfera esistenziale dei vivi; ciò dimostra che la padrona della vita regnava anche sulla morte e presumibilmente sulla possibilità di tornare alla vita, seppur in una dimensione ultraterrena.
A Çatal Hüyük ogni abitazione era divisa in due stanze; al centro dell’ambiente più grande veniva collocato un focolare rotondo e intorno ad esso dei sedili di argilla e delle piattaforme elevate per coricarsi. In un angolo della stanza c’era un forno per cuocere il pane mentre la stanza più piccola era una dispensa per la conservazione del cibo. Tra una casa e l’altra c’erano dei cortili usati come stalle per le capre e le pecore. Sebbene due terzi delle case erano decorati con immagini simboliche queste abitazioni non erano santuari: il culto è ancora una prerogativa domestica e dà conto di una “ossessione simbolica”, quella di un aggregato di umani che vivono a stretto contatto con i propri morti e che ha da tempo associano in maniera istintiva la penetrazione sessuale alla sepoltura dei semi per l’agricoltura. Il simbolismo del toro, animale di indomito spirito che all’epoca non era ancora stato addomesticato, venne probabilmente adottato come controparte maschile dalla dea Madre, concentrando in un’immagine il potere creativo dell’inseminazione che anticipa la creazione della vita attraverso il corpo della donna.
Lettura tematica consigliata da Civiltà eterne.it “Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin
Fonti
[1]“Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini, Pag.53
Titolo originale “Naissance des divinitè. Naissance de l’agricolture. La révoution des symboles au Néolithique, 1994 CNRS Editions, Paris
[2]“Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini, Pag.54
Titolo originale “Naissance des divinitè. Naissance de l’agricolture. La révoution des symboles au Néolithique, 1994 CNRS Editions, Paris
[3]“Costruirono i primi templi. 7000 anni prima delle piramidi” di Klaus Schmidt, 2016 Oltre Edizioni. Traduzione di Umberto Tecchiati. Pag.59
Titolo originale “Sie bauten die ersten Tempel”, Verlag C.H. Beck oHG. 2007, 2011, 2013, 2014, 2016
“Dove nacque la civiltà” DIJames Mellaart, 1981 Newton Compton. disegni di Shirley Felts e Edgar Holloway ; adattamenti e integrazioni di Anna Enrico; traduzione di Gigliola Giorgi.
“Il calice e la spada, la civiltà della Grande Dea dal neolitico ad oggi” di Riane Eisler, FORUM editrice universitaria Udine (terza stampa italiana 2018, Traduzione curata da Vincenzo Mingiardi) pag.56-57
Prima edizione italiana: Pratiche 1996.
Seconda edizione italiana: Frassinelli 2006 Titolo originale “The chalice and the Blade. Our history, our future” 1987, 1995.
I convincimenti spirituali connessi al tema della fertilità e della rigenerazione furono rappresentati in forma materiale fin dal paleolitico riproducendo il corpo formoso della donna; una significativa percentuale di tutti gli oggetti di culto paleolitici e neolitici recuperati è infatti rappresentata da figure più o meno astratte degli attributi sessuali femminili e della maternità. Da ciò emerge un culto estremamente diffuso e longevo, quello di una Dea fertile, gravida o materna, che ha interessato moltissime comunità di uomini fino ai tempi più recenti della storia. Un esempio molto significato proviene dagli scavi archeologici condotti nell’arcipelago di Malta, dove sono state portate alla luce alcune tra le più belle rappresentazioni della fertilità mai rinvenute.
Malta, Gozo e Comino sono piccole isole di roccia calcarea situate nel cuore del Mar Mediterraneo, approssimativamente 90 km a sud della Sicilia e 300 km a nord dell’Africa. Su questo piccolo arcipelago s’insediò a partire dal 5300 a.C. una società neolitica autonoma, basata essenzialmente sull’agricoltura e sulla pesca, che non modificò le su caratteristiche peculiari fino al 3500 a.C. quando ebbe inizio una fase di edificazione megalitica incomparabile che terminò mille anni più tardi.
L’arcipelago di Malta, malgrado la modesta estensione della sua superficie, appena 316 km quadrati, vanta una concentrazione di rovine megalitiche davvero impressionate; sono ben 33 gli edifici di culto inventariati e a questi bisognerebbe aggiungerne altrettanti che non sono sopravvissuti fino a giorni nostri. Gli oggetti di culto recuperati e le caratteristiche simboliche dei complessi monumentali hanno riportato al presenti i principi di una antica credenza molto radicata, incentrata sul concetto della fertilità e della rigenerazione. Una potente sintesi di questi principi, che convogliarono un entusiasmo religioso che all’epoca non conobbe eguali, si riscontra ad esempio nella statuetta della “donna dormiente” ritrovata all’interno dell’ipogeo di Ħal-Saflieni, così come nell’enorme statua di donna recuperata nel tempio di Tarxiem e in tanti altri manufatti comparabili, ma anche nella forma stessa degli edifici di culto.
“Dea dormiente” dell’isola di Malta. fonte immagine
Il manufatto più significativo appartenuto all’antica società maltese è senza dubbio la “Dea dormiente” rinvenuta all’interno dell’ipogeo di Ħal-Saflieni, un santuario sotterraneo con funzioni funerarie scavato nella roccia durante l’epoca della civiltà dei templi (3600-2500 a.C.). La statuetta, le cui dimensioni possono essere contenute nel palmo di una mano, rappresenta una donna distesa sul fianco destro, distinta da gambe, avambracci e fianchi molto abbondati . La figura indossa una gonna ricamata mentre è nuda dalla vita in su.
Le statuette femminili rinvenute tra le rovine dei templi megalitici non differiscono nell’aspetto rispetto a quelle che sono state recuperate all’interno dei luoghi di sepoltura; ciò suggerisce pertanto che la Dea rappresentata non era soltanto la Signora della fertilità e della vita e che i suoi poteri si estendevano anche al mondo dei morti. La Dea dormiente dell’ipogeo Ħal-Saflieni riposa serenamente, nella stessa posizione in cui venivano deposti i corpi di defunti, pertanto possiamo ipotizzare che la statuetta sia stata collocata in prossimità del defunto al fine di propiziare la rinascita del suo spirito nel mondo ultraterreno. Alcune pareti dell’ipogeo Ħal-Saflieni furono inoltre dipinte con l’ocra rossa, creando motivi spiraliformi simbolicamente connessi ai poteri rigenerativi della Dea.
Un’espressione simbolica dei convincimenti religiosi che spinsero alla costruzione di imponenti strutture megalitiche la si riscontra anche nell’architettura stessa delle opere monumentali. La particolare forma polilobata degli ambienti di culto sembrerebbe essere stata adottata per riprodurre l’immagine del pingue corpo della Dea Madre, inoltre l’orientamento astronomico dei templi, indirizzato prevalentemente verso i punti in cui sorge il Sole all’alba degli equinozi e dei solstizio, è un’ulteriore dimostrazione della valenza rigenerativa del simbolismo adottato.
fonte immagine di copertina: https://viaggimalta.it/ipogeo-hal-saflieni/
Venere di willendorf (calcare, 24.000-26.000 a.C., Austria). fonte immagine
Il culto neolitico della “Dea Madre” è il tenue retaggio di una concezione spirituale nata agli albori della mente umana, in un epoca, quella del paleolitico, in cui l’uomo viveva in perfetta simbiosi con i cicli della natura. All’epoca la sopravvivenza dell’uomo dipendeva dai frutti che la natura gli metteva a disposizione perciò è probabile che la prima immagine divina ad essere concepita dalla mente umana fosse proprio quella della “Madre Terra”. Il calore del Sole, i frutti della terra e tutti gli animali erano solo alcuni dei tanti doni che lo spirito della natura donava all’uomo e pertanto quello spirito, il cui eco si rifletteva nella capacità riproduttiva di tutte le femmine del clan, non poteva essere rappresentato in altro modo se non con il corpo formoso di una donna. Il corpo della donna, come le stagioni, il Sole e la Luna, segue dei cicli per cui è assolutamente logico ipotizzare che i nostri antenati lo avessero iconizzato al fine di rappresentare lo spirito creativo che dona vita a tutte le cose. Quello spirito lo si poteva riscontrare costantemente in ogni fenomeno naturale e siccome la sua benedizione doveva essere sempre presente ovunque l’uomo andasse, era necessario portarla con sé sotto forma di amuleto, insieme a tutti gli utensili necessari alla sopravvivenza. Da questa esigenza nacque il tema artistico delle “Veneri paleolitiche”, rappresentato da statuette di piccole dimensioni ottenute dalla lavorazione di pietra e ossa, che raffigurano il corpo femminile accentuando il dimorfismo sessuale. Scoperte recenti, come nel caso della venere di Tan-Tan, potrebbero, e il condizione è più che necessario, collocare l’orizzonte cronologico di questo fenomeno ad un’epoca compresa tra i 500.000 e 300.000 anni fa, dunque ad un tempo antecedente a quello che vide la comparsa dell’uomo anatomicamente moderno in Africa centro-meridionale.
Cronologia delle figure femminili più significative del Paleolitico:
Venere di Hohle Fels (35.000-40.000 a.C., Germania)
Venere di Dolní Věstonice (27.000-31.000 a.C., Repubblica Ceca)
Venere di Lespugue (27.000 a.C., Francia)
Venere di Willendorf (24.000-26.000 a.C., Austria)
Venere di Moravany (23.000 a.C., Slovacchia)
Venere di Laussel (20.000 a.C., Francia)
Venere di Frasassi (20.000 a.C., Italia)
Le veneri preistoriche, le pitture rupestri e le inumazioni sono importanti documenti psichici che mettono in luce i reconditi timori che fin dai tempi più antichi risiedono nell’animo umano e i comportamenti che nostri antenati assunsero di fronte ai grandi misteri della vita e della morte. Dal ritrovamento di queste disposizione artistiche e simboliche riecheggiano i riti del passato, concepiti dall’uomo nel tentativo di trovare conforto alle proprie inquietudini, portando al presente i principi di un’antica credenza che al giorno d’oggi è ancora molto diffusa; ovvero la rinascita dello spirito dopo morte. Dalle tombe del paleolitico emerge un evidente correlazione tra la donna e i poteri che governano tutti i cicli di vita e morte che si osservano in natura. Per esempio nella grotta di Cro-Magnon, in Francia sud-occidentale, sui corpi inumati dei nostri antenati paleolitici furono disposte numerose conchiglie. Queste conchiglie, la cui forma ricorda neanche troppo vagamente quella dei genitali femminili, pare che fossero associate ad una primitiva forma di adorazione di una divinità femminile, insieme ad altri elementi propiziatori, come l’ocra rossa, associata al sangue mestruale che nella donna annuncia il rinnovamento della capacità riproduttiva. L’utilizzo di questi simboli è senza dubbio la dimostrazione che i nostri antenati tentarono di propiziare la rinascita del defunto invocando lo spirito rigenerativo della Dea Madre. Questa associazione è rafforzata dal fatto che i riti di rigenerazione non si limitarono al trattamento dei defunti. Esistono prove che dimostrerebbero l’esistenza trascorsa di riti legati alla rigenerazione delle piante e degli animali di cui l’uomo si nutriva. Ad esempio nella caverna di Tuc D’Audoubert sono state scoperte le rappresentazioni di due bisonti modellati nell’argilla, una femmina seguita da un maschio, e impronte umane impresse nel terreno argilloso durante una danza rituale. (Riane Eisler 1987, 1995)
I riti sciamanici furono una componente importante della vita dell’uomo e ne ritroviamo una potente sintesi nella pittura rupestre dell’uomo stregone trovata all’interno della grotta di Trois Frères (Francia meridionale, 13.000 a.C.), oppure nella statuetta in avorio dell’uomo-leone ritrovata nella grotta di Hohlenstein (Germania centro-meridionale, 40.000 a.C.). Insieme a queste rappresentazioni teriomorfe i nostri antenati intagliarono anche le prime figure femminili.
Caverne tempio, statuette, sepolture e riti sembra fossero associati alla concezione che la vita umana, quella animale e quella vegetale abbiano origine dalla stessa sorgente, la grande Dea Madre Onnidispensatrice, che troviamo anche in periodi successivi della civiltà occidentale. Indicano inoltre che i nostri antichi progenitori riconoscevano che noi e il nostro ambiente naturale siamo parti integranti e collegate del grande mistero della vita e della morte, e che per questo motivo tutta la natura deve essere trattata con rispetto. Questa coscienza – in seguito evidenziata nelle statuette della Dea circondata da simboli naturali come animali, acqua e alberi, oppure essa stessa in forma animale – era indubbiamente alla base del nostro perduto retaggio psichico. Centrale è anche l’evidente timore reverenziale, la meraviglia per il grande miracolo della nostra condizione umana: il miracolo che s’incarna nel corpo di una donna. A giudicare da queste prime testimonianze psichiche, si tratta di un tema fondamentale nei sistemi di fede preistorici dell’Occidente.
Tratto da “Il calice e la spada, la civiltà della Grande Dea dal neolitico ad oggi” di Riane Eisler, FORUM editrice universitaria Udine (terza stampa 2018, Traduzione curata da Vincenzo Mingiardi)
Le veneri paleolitiche, l’utilizzo d’ocra rossa e delle conchiglie a forma di vagina nei luoghi di sepoltura sono le prime manifestazioni di una credenza che in seguito assunse le caratteristiche di una vera e propria religione incentrata sul culto della Dea Madre. Questo culto, largamente diffuso nell’epoca neolitica, è sopravvissuto fino ai momenti più recenti della storia nella figura composita della Magna Mater della mitologia Greco-romana. La continuità storica di questa credenza la si distingue anche in altre divinità note, come Iside, Nut e Maat in Egitto, oppure in Astarte, Ishtar, e Lilith nella Mezzaluna Fertile. Nella tradizione cattolica, invece, la si riconosce nella figura della Vergine Maria. (Riane Eisler 1987, 1995)
fonti:
“Il calice e la spada, la civiltà della Grande Dea dal neolitico ad oggi” di Riane Eisler, FORUM editrice universitaria Udine (terza stampa 2018, Traduzione curata da Vincenzo Mingiardi)
Prima edizione italiana: Pratiche 1996.
Seconda edizione italiana: Frassinelli 2006 Titolo originale “The chalice and the Blade. Our history, our future” 1987, 1995.
L’adattamento dell’uomo ad un regime di vita pienamente sedentario ebbe inizio attorno al X millennio a.C. in Medio Oriente, nelle regioni elevate e umide situate ai margini settentrionali del deserto siriaco e della Mesopotamia, in un arco di cerchio che per convenzione è stato definito Mezzaluna Fertile. Le condizioni ambientali e climatiche che si crearono in quest’area geografica al termine dell’ultimo evento glaciale agevolarono il graduale e spontaneo sviluppo delle economie agricole, relegando le occupazioni di caccia e raccolta ad un ruolo sempre più marginale. Nelle regioni pedemontane della Mezzaluna Fertile, come i versanti occidentali dei Monti Zargos e i rilievi dell’Anatolia meridionale e del Levante, crescevano spontaneamente i cereali e i legumi selvatici che si prestarono ad essere coltivati durante il neolitico (farro, frumento, orzo, ceci, piselli, lino e lenticchie), oltre a ciò esistevano nella loro forma selvatica quattro delle più importanti specie animali da allevamento (mucche, capre, pecore e maiali). L’uomo, in queste regioni privilegiate, acquisì la capacità di produrre gli alimenti necessari alla propria sussistenza addomesticando le piante e gli animali selvatici e poco alla volta imparò a trasformare le risorse e a farne scorta creando i primi sistemi economici fondati sulla specializzazione del lavoro e sul baratto. Gli agricoltori neolitici occuparono poi le fertili pianure alluvionali del Medio Oriente, come in Mesopotamia, dove misero a cultura enormi appezzamenti di terreno e dove costruirono insediamenti che nel corso dei tempo si strutturano diventando veri e propri agglomerati urbani caratterizzati da significative stratificazione sociali, da elevate specializzazioni del lavoro e da complesse interazioni pubbliche e commerciali.
In Europa la transizione neolitica non fu altrettanto spontanea e non si concretizzò fin quando non furono introdotti nel continente i prodotti e le innovazioni fondamentali della rivoluzione neolitica. Ciò avvenne grazie all’azione dei colonizzatori neolitici dell’Asia Minore e del Levante e alle interazioni culturali e commerciali che essi stabilirono con i gruppi mesolitici dell’Europa sud-orientale; ma i contatti non furono immediati. Le catene montuose dell’Anatolia ostacolarono per molto tempo i circuiti di scambio intercontinentali, mentre la navigazione nel Mediterraneo necessitò di un lungo periodo di apprendimento prima che si potesse inaugurare l’epoca dei commerci marittimi e dei grandi flussi coloniali. La situazione mutò soltanto nel corso del VII millennio a.C. con il moltiplicarsi dei viaggi in mare aperto e con l’approdo di natanti levantini sulle coste del Mediterraneo centrale (corrente di diffusione mediterranea). In seguito, l’aumento demografico in Anatolia e la ricerca di nuove terre coltivabili indirizzarono gli agricoltori neolitici verso le pianure alluvionali dei Balcani orientali (corrente di diffusione continentale). Le comunità mesolitiche dell’Europa centrale e sud-orientale furono allora coinvolte in un graduale processo di assimilazione che portò allo sviluppo di nuove culture nelle zone di contatto. Gli innovativi sistemi d’insediamento, le tecniche agricole e le rivoluzionarie esperienze che permettevano la trasformazione e la conservazione dei prodotti alimentari, vennero localmente accolte e rielaborate, favorendo la transizione neolitica delle popolazioni locali.
Economie di villaggio basate sulla domesticazione delle piante e degli animali comparvero dunque in Tessaglia e nei Balcani centro-orientali, per poi diffondersi anche alle pianure alluvionali dell’Europa Centrale e lungo le coste del Mar Adriatico e del Mar Tirreno. Il regime di sussistenza neolitico venne successivamente acquisito anche dalle culture post-paleolitiche dell’Europa nord-occidentale e nord-orientale, anche in zone climatiche indubbiamente svantaggiate, a volte del tutto incompatibili con il regime alimentare neolitico, come se questo tipo di “progresso” fosse divenuto un’ineluttabile necessità.
La diffusione della cultura neolitica in Europa
L’ambiente Mediterraneo, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, non offriva condizioni ambientali e climatiche tali da favorire la spontanea evoluzione di una società agricola pertanto la transizione neolitica in Europa non si concretizzò fin quando non furono introdotti nel continente i “pacchetti d’innovazione” sviluppati in Medio Oriente. L’origine mediorientale delle piante e degli animali domestici utilizzati dalle società neolitiche europee venne intuita oltre un secolo fa da storici e botanici di illustre fama, come A. De Candolle e V. Hehn, per poi essere scientificamente dimostrata dalle ricerche biologiche più moderne.
In sintesi, abbiamo un’eccessiva tendenza a credere alla dolcezza, alla facilità spontanea della vita nel Mediterraneo. Ci si lascia ingannare dal fascino del paesaggio. La terra coltivabile è rara, le montagne aride o poco fertili sono onnipresenti (“Troppo osso, poca carne”, diceva un geografo); l’acqua piovana è mal distribuita: abbonda quando la vegetazione riposa, in inverno, e sparisce quando lo spuntare delle piante la richiederebbe. Il grano, come le altre piante annuali, deve affrettarsi a maturare. La fatica degli uomini non sarà addolcita dal clima, ogni lavoro agricolo viene svolto quando il calore è più forte, per ottenere un raccolto spesso troppo magro. “semina nudo, ara nudo, mieti nudo”, ossia quando fa troppo caldo per vestirsi, è questo il consiglio di Esiodo. “nudus ara, sere nudas”, ripete Virgilio. E se il grano manca alla fine dell’anno, aggiunge, “allora scuoti la quercia nella foresta, per alleviare la fame”.
Le attività archeologiche concentrate nei siti pre-agricoli dell’Europa sud-orientale hanno dissolto quasi ogni dubbio in merito a quali fossero le reali condizioni di sussistenza antecedenti all’introduzione dei prodotti e delle innovazioni neolitiche.
Tra i siti archeologici più significativi troviamo la grotta di Franchthi, un rifugio naturale situato in prossimità della costa del Golfo Argolico, un’insenatura del Mar Egeo nel Peloponneso sud-orientale. La grotta fu occupata per la prima volta durante il Paleolitico superiore, approssimativamente attorno al 38.000 a.C., da gruppi di cacciatori composti da non più di 30 individui per volta. Rudimentali strumenti di pietra e ossa macellate rappresentano la debole testimonianza di un antico sfruttamento stagionale ad uso di campeggio e di un’attività venatoria mirata all’uccisione di grandi prede, principalmente asini selvatici e cervi rossi. Questo regime di sussistenza perdurò senza significative variazioni fino al 18.000 a.C., epoca in cui avvenne un prolungato abbandono del territorio obbligato dal protrarsi di un intenso evento glaciale. La grotta tornò ad essere visitata duemila anni più tardi fino al successivo periodo glaciale, iniziato attorno al 12.900 a.C.. Lo sfruttamento della grotta ricominciò nuovamente nell’11.700 a.C. in concomitanza con l’inizio della fase di riscaldamento che determinò lo scioglimento dei ghiacciai wurmiani del Nord Europa (inizio dell’Olocene), quando i cambiamenti climatici post-glaciali determinarono in sensibile miglioramento delle condizioni di sussistenza incoraggiando il repentino sviluppo della cultura mesolitica. Gli occupanti mesolitici della grotta ampliarono la loro base di risorse alimentari includendo anche piante selvatiche, pesci e molluschi. I reperti recuperati all’interno della grotta hanno evidenziato un sensibile incremento nello sfruttamento delle risorse ittiche tra il 7.900 e il 7.500 a.C.; in particolar modo con il consumo di tonno. Il tonno è un pesce che vive in banchi che non si avvicinano mai alla costa pertanto l’ottenimento di questo alimento dimostra il raggiungimento di un’evoluta scienza della navigazione già in epoca mesolitica. Precoci abilità nautiche, che andavano ben oltre al semplice cabotaggio costiero, sono certificate anche dal ritrovamento di altre materie prime, come l’ossidiana dell’isola di Milo, un’isola vulcanica delle Cicladi che dista un centinaio di chilometri dalla terra ferma.
La navigazione ha cambiato il mondo e ha permesso all’uomo di evolvere. Per quanto ne sappiamo, tutto è iniziato circa dodici mila anni fa, e lo sappiamo grazie ad una eccezionale scoperta fatta sull’Isola di Cipro, ovvero il ritrovamento di ossa fossili macellate riconducibili ad una specie estinta di ippopotami nani. Si è appreso che furono i cacciatori mesolitici dell’Asia Minore e del Levante a sfidare i pericoli del mare al fine di cacciare gli ippopotami sull’isola di Cipro e che ciò avvenne già nel 9700 a.C. e per molte generazioni prima che l’isola fosse colonizzata da insediamenti stabili.
Fa un certo effetto pensare a questi uomini e al loro coraggio, ma sopratutto alla loro vulnerabilità difronte ai pericoli del mare, in un certo senso paragonabile a quella dell’uomo moderno rispetto ai primi viaggi interplanetari che si accinge a compiere nel sistema solare.
Sarebbe appassionante assistere alle “navigazioni selvagge” che per prime, nel Mediterraneo e altrove, sfidarono i pericoli del mare. Ma non è possibile, e allora discuteremo ancora senza purtroppo arrivare a conclusioni precise. Se esistono, le testimonianze in proposito sono rare e di difficile interpretazione. Le prime navigazioni devono essere cominciate molto presto, fra il X e il VII millennio. Ma le prove in merito sono assai fragili. Nessuno potrebbe quindi pronunciarsi con sicurezza a proposito degli enigmatici disegni incisi nelle grotte della regione di Santander, sull’oceano, o vicino a Malaga, sul Mediterraneo. Possiamo interpretarli come imbarcazioni paleolitiche? Si, diceva l’abate Breuil. Ma finché non avremo notizie più certe non dobbiamo essere imprudenti. Allo stesso modo nessuna prova formale corrobora le ipotesi di alcuni geografi sulla nascita della navigazione, sia sul Mar Rosso, sia tra la costa dell’Asia Minore e le vicine grandi isole dell’Egeo. Conferma quest’ultima supposizione il fatto che Creta o Cipro siano state popolate, sembra, all’inizio del neolitico, all’incirca verso il VII o il VI millennio. Questi primi abitanti dovettero per forza arrivare dal mare. Zattere e rudimentali imbarcazioni leggere, se non vere e proprie barche, esistevano già nel VII millennio, e probabilmente anche prima; non è nemmeno escluso che un giorno si possano trovare, in un’isola che non è mai stata saldata al continente, specialmente a Cipro, le cui grotte-riparo non sono state ancora esplorate tutte, tracce di un popolamento mesolitico, o addirittura paleolitico; il nostro problema avrebbe allora una portata assai diversa. Personalmente credo, pur senza averne prove sufficienti, all’antichità delle navigazioni selvagge. In primo luogo, non rappresentano affatto la quadratura del cerchio. Alcune società primitive sfidarono i pericoli dell’acqua e del mare; pensiamo alle zattere degli amerindi o, sulle coste del Perù, a quelle barche fatte di giunchi legati – i caballitos, i cavallini, sui quali i pescatori, sfidarono le onde, si avventurarono all’argo! D’altra parte, per quanto riguarda il Mediterraneo, un cabotaggio iniziato in tempi remoti sembra l’unico modo per spiegare la diffusione di certe merci. Così l’espansione della ceramica detta cardiale (decorata imprimendo sull’argilla fresca una conchiglia, il cardium) sarebbe avvenuta per mezzo di un cabotaggio primitivo, forse a partire dal golfo di Alessandria, dietro Cipro. Di là, zattere avrebbero raggiunto Grecia, Italia, Provenza, Spagna, Sicilia, Malta, e forse le rive dell’Africa del Nord. In effetti, su tutte queste coste si ritrovano cocci decorati a impressione, che un tempo venivano fatti risalire al III millennio, ma che scavi recenti obbligano a portare molto più indietro nel tempo. Esattamente fino a quando? In Tessaglia, sono stati datati alla fine del VI millennio. Per l’Occidente, se ne discute, e se ne discuterà ancora: V? VI millennio? L’unica certezza è che questa ceramica corrisponde ovunque alla diffusione delle prime forme neolitiche di agricoltura.
L’introduzione dell’agricoltura in Europa sud-orientale avvenne all’inizio del VII millennio a.C. grazie allo sviluppo della navigazione nel Mediterraneo. Nell’arco di un breve periodo la selvaggina e le piante spontanee alla base della dieta mesolitica vennero sostituite con le piante e gli animali domestici introdotti dai colonizzatori neolitici. Le indagini archeologiche svolte all’interno della grotta di Franchthi e nell’area circoscritta all’entrata suggeriscono che i suoi occupanti iniziarono un commercio di semi e carni con il popolo neolitico del Levante, per poi sperimentare a loro volta le prime forme di agricoltura e allevamento. Con lo sviluppo delle attività agricole l’occupazione del sito di Franchthi si spostò all’esterno della grotta, nell’aria adiacente all’entrata (il paralia), dove furono costruite terrazze per le colture in crescita. Si ritiene che fosse sorto un villaggio di agricoltori in prossimità delle coltivazioni che tuttavia non può essere investigato con sistemi tradizionali a causa dell’avanzamento del mare. Il sito fu abbandonato intorno al 3000 a.C.
Lo studio di altri siti pre-agricoli dell’Europa sud-orientale, tra i quali Sesklo, Achilleion e Argissa Magoula, conferma l’introduzione delle piante domestiche in un periodo compreso tra il VII e VI millennio a.C..
La prima cultura neolitica d’Europa piantò le sue radici in Tessaglia, nei pressi dell’odierno villaggio di Sesklo. Il popolo di Sesklo edificò i suoi villaggi sulle colline, nei pressi delle fertili vallate destinate alla coltivazione di grano e orzo, e al pascolo di pecore, capre, mucche e maiali. La transizione neolitica di Sesklo è stata datata con metodi radiometrici all’inizio del VII millennio a.C., precisamente al 6900 a.C.
La cultura di Sesklo ebbe un ruolo cruciale per la diffusione della cultura neolitica in Europa; la sua influenza incoraggiò lo sviluppo delle altre culture neolitiche della penisola balcanica, in particolar modo quello della cultura di Karanovo, ma anche quello della cultura di Starčevo con tutte le sue varianti regionali: la cultura di Anzabegovo in Macedonia, di Kolsh in Albania, di Körös in Ungheria e di Criş in Romania.
La cultura della ceramica cardiale
Ceramica cardiale
Una seconda influenza neolitica raggiunse le coste dell’Europa sud-orientale alla fine del VII millennio a.C. dando origine alla “Cultura della ceramica cardiale (o impressa)”, così chiamata in virtù delle particolari decorazioni impresse sui recipienti ceramici che produceva. Le decorazioni furono realizzate utilizzando le conchiglie, in particolare il cardium, da cui deriva la definizione di ceramica cardiale. Oltre a ciò si riconoscono decorazioni realizzate con strumenti di origine vegetale, ma anche impressioni digitali, ottenute pizzicando l’argilla fresca.
Al di là delle variazioni stilistiche il fatto davvero rilevante è che la distribuzione geografica e temporale di queste ceramiche coincide, nelle regioni interessate, con l’introduzione dei primi prodotti neolitici.
L’origine della ceramica cardiale è stata individuata in Libano e ciò ha confermato l’ipotesi che la sua rapida diffusione fosse in realtà il frutto di una seconda colonizzazione neolitica partita dalle coste del Levante. All’epoca le prime culture neolitiche dell’Europa sud orientale avevano già piantato le loro radici a Sesklo, a Creta e nei Balcani Centrali, tant’è che le culture Karanovo e Starčevo non subirono l’influenza della cultura cardiale per quasi un millennio.
La cultura della ceramica cardiale si diffuse inizialmente in Tessaglia, lungo le coste balcaniche dell’Adriatico e a Corfù attorno al 6200 a.C.. Le indagini archeologiche suggeriscono poi una rapida diffondersi verso la Dalmazia tra il 6100 e il 5900 a.C. Le prime tracce della cultura cardiale in Italia risalgono al 6000 a.C. e provengono dal sito neolitico di Coppa Nevigata, situato sulla costa adriatica dell’Italia meridionale e dalla grotta di Su Coloru in Sardegna settentrionale. Nelle regioni che si affacciano sul Mare Adriatico e sullo Ionio, dalla Dalmazia alle regioni meridionali e centro-orientali della Penisola Italiana, si individua una cerchia a ceramica impressa relativamente omogenea.
Nella Francia meridionale, nelle grotte di L’Abeurador e Fontbrégoua, sono state trovate le tracce di una presunta protoagricoltura mesolitica precedente all’introduzione dei prodotti neolitici provenienti dal Levante che comprendono lenticchie, piselli, Cicer, Lathyrus cicera, vecce, ghiande di quercia, nocciole e vinaccioli di vite. Alcuni semi presentano dimensioni tali da far supporre una protezione dei vegetali attuata eliminando le specie competitrici. Ciò significa che in piccole nicchie ecologiche stava per concretizzarsi autonomamente un rivoluzione delle abitudini alimentari. L’agricoltura vera e propria comparve invece insieme alla ceramica cardiale attorno al 5500 a.C. Tutte le datazione radiometriche dimostrano la rapida diffusione della cultura cardiale un’espansione marittima piantando colonie lungo la costa.
È inoltre attestato in tutto il Mediterraneo un fiorente commercio di materie prime direttamente connesse con le nuove attività neolitiche: l’ossidiana per l’industria litica, le pietre verdi per le accette e in genere per gli oggetti di pietra levigata, le arenarie e le rocce vulcaniche per le macine.
La cultura della ceramica lineare
Vaso appartenuto alla Cultura della ceramica lineare. Rinvenuto a Rauschenberg-Bracht, Hessen, Germania. Esposto all’Universitätsmuseum für Kulturgschichte di Marburgo. fonte immagine
Una seconda corrente di diffusione della cultura neolitica del Levante attraversò le aspre catene montuose dell’Anatolia e lo stretto dei Dardanelli investendo le comunità mesolitiche dei Balcani orientali. Probabilmente si trattò di una vera e propria colonizzazione determinata dall’aumento demografico e dalla conseguente ricerca di nuove terre coltivabili. La cultura neolitica in espansione raggiunse poi i bacini idrografici dell’Elba e del Reno e in breve tempo arrivò ad occupare un ampia regione geografica che si estendeva dal bacino di Parigi fino ai confini meridionali di Moldavia e Ucraina, toccando le pendici delle prealpi settentrionali.
La cultura neolitica che occupò il cuore dell’Europa tra la metà del VI e la metà del V millennio a.C è stata definita “Cultura della ceramica lineare” in virtù dell’omogenea diffusione di recipienti ceramici decorati con incisioni lineari a bande. La ceramica lineare, a differenza di quella cardiale, non ebbe origine in Medio Oriente, bensì nei Balcani centrali: la ceramica lineare sarebbe infatti apparsa per la prima volta attorno al 5500 a.C a.C. lungo il corso medio del Danubio nell’area occupata della cultura di Starčevo. Le forme ceramiche sono molto semplici, comprendono scodelle emisferiche, fiaschi e vasi su piede, mentre le decorazioni sono prive di colori.
La maggior parte degli insediamenti appartenuti alla Cultura della ceramica lineare sono localizzati su terrazzi fluviali in posizione tale da restare emersi anche in caso di piene stagionali o alluvioni. È questo il caso dei grandi insediamenti scavati a Olszanica (Polonia), Bylany (Repubblica Ceca), Langweiler, Hienheim (Germania) e Elsloo (Germania). Gli insediamenti sono caratterizzati da case rettangolari, ai lati delle quali si trovano i fossati da cui è fu estratta l’argilla per intonacare le pareti, pozzi di rifiuto e silos per la raccolta dei prodotti agricoli.
L’economia di sussistenza era essenzialmente basata sull’agricoltura e sull’allevamento. Frumento monococco e dicocco erano le coltivazioni più comuni, ma venivano coltivati anche il pisello, la lenticchia e il lino. E’ stata documentata anche la raccolta di frutti spontanei, fra i quali le nocciole, come indica il rinvenimento di molti frammenti di gusci carbonizzati. Per quanto concerne i resti faunistici, questi mancano in molti dei siti investigati a causa dell’acidità del terreno che ne ha eliminato completamente ogni traccia. Nei casi contrari è quasi sempre l’allevamento dei bovini e dei suini a dominare su quello dei caprovini per quanto, in alcuni insediamenti della Sassonia e della Turingia, l’attività di pastorizia fosse largamente dominante.
fonte immagine in testata: https://pixabay.com/fr/photos/bateaux-de-pirogue-finlande-paysage-115046/
fonti: “Memorie del Mediterraneo. Preistoria e antichità” di Fernand Braudel (Autore), R. De Ayala (a cura di), P. Braudel (a cura di), E. Z. Merlo (Traduttore). Edizione Bompiani. 1998. pag.106-107 http://www.treccani.it/enciclopedia/la-domesticazione-delle-piante-e-l-agricoltura-europa-preistorica-e-protostorica_%28Il-Mondo-dell%27Archeologia%29/ https://en.wikipedia.org/wiki/Franchthi_Cave http://www.treccani.it/enciclopedia/repertorio-delle-culture-dell-europa-preistorica-neolitico_%28Il-Mondo-dell%27Archeologia%29/ http://www.treccani.it/enciclopedia/repertorio-delle-culture-dell-europa-preistorica-neolitico_%28Il-Mondo-dell%27Archeologia%29/ https://en.wikipedia.org/wiki/Cardium_pottery
Economie di villaggio basate sulla domesticazione delle piante e degli animali comparvero in Europa già nel VII millennio a.C., insieme ad un modello culturale unico e contemporaneo rispetto a quelli che emersero all’interno della Mezzaluna Fertile durante la rivoluzione neolitica. Senza dubbio furono i contatti avvenuti con il dinamico scenario neolitico del Vicino Oriente ad avviare le popolazioni mesolitiche dell’Europa sud-orientale verso una significativa trasformazione culturale, ma il risultato non fu un mero riflesso delle tradizioni orientali dato che le culture europee svilupparono una propria identità culturale in maniera autonoma.
La regione che vide il concretizzarsi della prima transizione neolitica in Europa attraversa tutta la penisola balcanica, dalle sponde del Mar Adriatico e del Mar Egeo verso nord, fino agli odierni confini meridionali di Ucraina e Polonia, mentre il quadro d’interazione con le popolazioni mesolitiche che abitavano il resto del continente è complesso e porta ad uno scenario in costante evoluzione.
VII-VI millennio a.C. Area occupata della prima civiltà neolitica europea.
Nell’area geografica sopracitata tra il VII e il IV millennio a.C. si affermarono cinque tradizioni neolitiche riconducibili ad un’unica identità culturale che per convenzione è stata definita “Civiltà dell’Antica Europa”. Il regime di sussistenza neolitico venne successivamente acquisito anche dalle popolazioni mesolitiche che risiedevano lungo le coste mediterranee di Francia e Spagna e dalle popolazioni dell’Europa nord-orientale e nord-occidentale.
Le cinque tradizioni culturali appartenute alla Civiltà dell’Antica Europa occuparono le seguenti aree geografiche:
Egeo e Balcani centrali
Adriatico centro meridionale
Bacino mediano del Danubio
Balcani orientali
Moldavia e Ucraina occidentale
Le culture neolitiche dell’Antica Europa raggiunsero un livello socio-culturale e tecnologico molto più complesso rispetto ai loro vicini occidentali e settentrionali, e arrivarono a realizzare perfino insediamenti semi-urbanizzati caratterizzati da una significativa specializzazione del lavoro. Inoltre nel cuore della Penisola Balcanica venne introdotta una forma di scrittura ideografica antecedente a quella impiegata in Mesopotamia alla fine del IV millennio a.C.. La scrittura vinča, così chiamata perché appartenuta all’omonima cultura che occupò il bacino idrografico del Danubio tra il VI e III millennio a.C., è un insieme di simboli rinvenuti su alcuni manufatti che secondo l’opinione degli esperti furono idonei a riportare un concetto. Si presume che la scrittura vinča non fosse adatta a trasmettere un contenuto linguistico diretto pertanto il cuneiforme sumero maturato alla fine del III millennio a.C. in Mesopotamia rimane il primo sistema di scrittura a potersi considerare completo.
Il contesto storico e culturale del neolitico dell’Europa sud-orientale è stato perfettamente riassunto da Marija Gimbutas, un’archeologa e linguista lituana vissuta nel ventesimo secolo.
Tratto da “Le Dee e gli Dei dell’Antica Europa” di Marija Gimbutas. Ed. Stampa alternativa. Trad. a cura di Mariagrazia Pelaia
Se si definisce civiltà la capacità di una certa popolazione di adattarsi all’ambiente mettendo a punto il necessario complesso di arti, tecnologia, scrittura e relazioni sociali, è evidente che l’Antica Europa rientra in questa categoria con ampio margine di successo. Le tracce più eloquenti di questa cultura neolitica europea sono le sculture che testimoniano aspetti della vita altrimenti inaccessibili agli archeologi: le mode nell’abbigliamento, il rituale religioso e le immagini mitiche.
Gli abitanti dell’Europa sud-orientale di settemila anni fa (fase iniziale del neolitico) non sono contadini primitivi. Nel corso di due millenni di stabilizzazione agricola, il loro benessere materiale migliora stabilmente grazie allo sfruttamento sempre più efficace delle fertili valli fluviali. Si coltivano frumento, orzo, veccia, piselli e altri legumi e si allevano tutti gli animali addomesticati presenti oggi nei Balcani, a eccezione del cavallo. La tecnica ceramica e la lavorazione dell’osso e della pietra progrediscono e, introno al 5500 a.C., nell’Europa sud-orientale si comincia a lavorare il rame. Il commercio e le comunicazioni, che si erano sviluppati nel corso dei millenni, devono aver fornito un enorme slancio incrociato alla crescita culturale. L’archeologo può dedurre l’esistenza di commerci ad ampio raggio dalla vasta diffusione di ossidiana, alabastro, marmo e conchiglie di Spondilo. I mari e le vie d’acqua interne senza dubbio costituiscono le vie di comunicazione più importati e l’ossidiana viene trasportata via mare già dall’inizio del Settimo millennio a.C. L’uso di imbarcazioni è testimoniato dal Sesto millennio in poi, come testimoniano i disegni sulle ceramiche. Il costante aumento del benessere e la complessità dell’organizzazione sociale producono sicuramente nell’Europa sud-orientale una civiltà urbana in larga parte analoga a quella del Vicino Oriente e della Creta del Terzo e Secondo millennio a.C. La fioritura culturale in continua espansione delle società europee nel Quinto millennio a.C. viene tuttavia interrotta dall’infiltrazione aggressiva e dall’insediamento di pastori seminomadi, antenati degli Indoeuropei, che sconvolgono l’equilibrio di gran parte dell’Europa centrale e orientale nel Quarto millennio a.C. La ceramica variopinta e l’arte scultoria della civiltà in evoluzione dell’Antica Europa svaniscono all’improvviso; solo intorno all’Egeo e sulle isole la tradizione sopravvive fino alla fine del Terzo millennio a.C. e a Creta fino a metà del Secondo millennio a.C. La cultura ellenica antica in Grecia e nelle isole Cicladi e la civiltà minoica a Creata con la sua profusione di arte palaziale costituiscono esempi paradigmatici della cultura neolitica e calcolitica dell’Antica Europa.
Società matriarcali?
Gli oggetti di culto appartenuti alle popolazioni neolitiche dell’Antica Europa hanno messo in luce l’esistenza di un’antica e radicata credenza matrifocale che secondo l’opinione di alcuni esperti potrebbe essere il riflesso spirituale di una remota forma di matriarcato comune a tutte comunità autoctone. La donna, data la sua capacità di procreare, ebbe verosimilmente un ruolo primario all’interno delle società neolitiche europee; si presume che le donne fossero custodi della memoria e delle tradizioni e che le più anziane avessero la facoltà di prendere decisioni nell’interesse della collettività. Questa supposizione, basata su dati parziali e sull’intuito potrebbe essere corretta ma tuttavia non trova il consenso di tutta la comunità scientifica dato che la presenza di una credenza matrifocale non è di per sé sufficiente ad indicare con assoluta certezza l’esistenza trascorsa di una società matriarcale. La polemica ha peraltro sconfinato dall’ambito storico per riversarsi anche su contrapposizioni ideologiche dell’epoca moderna, in particolar modo dopo lo sviluppo del femminismo e dalle reazioni a questo contrarie.
I dati raccolti durante le indagini archeologiche hanno suggerito l’ipotesi di un’economia neolitica fondata sulla distribuzione delle risorse e sul principio di uguaglianza che potesse evitare l’accumulo dei beni. Questa presunta organizzazione sociale, egualitaria e pacifica, sarebbe stata l’antitesi di quella assunta dalle comunità neolitiche del Vicino Oriente, essendo quest’ultima contraddistinta da significative divisioni gerarchiche e rapporti di potere.
La cultura in evoluzione in Europa scomparve improvvisamente tra il V e il IV millennio a.C. a seguito di violente invasioni messe in atto da popoli indoeuropei provenienti dell’Eurasia occidentale.
Dee-serpente, Cultura Cucuteni. (Moldavia, Romania nord-orientale. 4.800/4.600 aC.) fonte immagine
Il culto della Dea Madre
Le campagne archeologiche condotte all’interno dei siti stratificati dell’Antica Europa hanno riportato alla luce 30.000 statuette femminili riconducibili al culto della “Grande Madre”, una delle prime idolatrie paleolitiche a concretizzarsi sotto forma di figure correlate al tema della fertilità e della rigenerazione. Dall’insediamento greco di Sesklo, in Tessaglia, a quello di Vinca sui Balcani, dalle grotte della costa Adriatica alle pianure bagnate dal corso del Danubio, fino ad arrivare al medio e alto corso del Dnestr e del Denpr (un ampia regione che tocca Romania, Moldavia e Ucrania), ovunque il femminino sacro sembra aver rivestito un ruolo di primo piano.
Oggetto di culto, figura femminile (Cultura Starčevo, 5500-4500 a.C. ,Belgrado)
Le figure di donna rappresentate presentano particolari differenze stilistiche legate alle rispettive tradizioni locali ma in ogni caso sono tutte accomunate da attributi sessuali marcati, forme abbondanti e da un volto mascherato dal significato profondamente simbolico. In altri casi il volto è astratto o del tutto assente. Questa caratteristica peculiare ci dice che l’intento degli artisti neolitici non fu di certo quello di realizzare ritratti di donna, bensì quello di creare oggetti di culto canonizzati che potessero rappresentare lo spirito creativo della “Dea Madre” in forma umanizzata.
La sopravvivenza delle società neolitiche dipendeva dal regolare sfruttamento delle attività agricole e dal puntuale ripetersi dei cicli stagionali, pertanto i nostri antenati cercarono di propiziare il periodico rinnovamento dell’ambiente naturale invocando la partecipazione e la benevolenza dello Spirito Madre mediante l’utilizzo di immagini confacenti al tema della fertilità e della rigenerazione.
Le rappresentazioni della maternità sono frequenti; in questi casi le donne mascherate siedono con un bambino sul grembo che a sua volta indossa una maschera analoga a quella della madre (foto in testata. Statuetta Vinca V-IV millennio a.C. Penisola balcanica). Le maschere rappresentano frequentemente serpenti e uccelli. Anche le rappresentazioni sacre della maternità ebbero con ogni probabilità un significato propiziatorio per coloro che vivevano immersi in quel ciclo di morte e rinascita che governa il mondo naturale.
L’utilizzo delle maschere fu una pratica comune a moltissime popolazioni arcaiche fin dal Paleolitico. La maschera era utilizzata per alienare l’individuo dal mondo materiale, al fine di proiettare il suo spirito in un altra realtà, quella ultraterrena. Colui o colei che la indossava poteva perdere la propria identità per assumere quella figura rituale rappresentata. Alla luce di ciò viene da chiedersi se alcune statuette non vogliano in realtà riprodurre l’immagine di un rito che inseriva le donne gravide o le nuove madri in un contesto sciamanico. Le donne gravide ebbero plausibilmente una grande importanza all’interno del contesto divinatorio delle società neolitiche dell’Antica Europa dato che potevano idealmente incarnare lo spirito della natura creando un collegamento tra il mondo materiale e quello spirituale.
Venere paleolitica di willendorf (calcare, 24.000-26.000 a.C., Austria). fonte immagine
Lo sciamanesimo nacque nel Paleolitico, ne ritroviamo una potente sintesi nella pittura rupestre dell’uomo stregone trovata all’interno della grotta di Trois Frères (Francia meridionale, 13.000 a.C.), oppure nella statuetta in avorio dell’uomo-leone ritrovata nella grotta di Hohlenstein (Germania centro-meridionale, 40.000 a.C.). Insieme a queste rappresentazioni teriomorfe i nostri antenati intagliarono anche le prime figure femminili.
Cronologia delle figure femminili più significative risalenti al periodo paleolitico:
Venere di Hohle Fels (35.000-40.000 a.C., Germania)
Venere di Dolní Věstonice (27.000-31.000 a.C., Repubblica Ceca)
Venere di Lespugue (27.000 a.C., Francia)
Venere di Willendorf (24.000-26.000 a.C., Austria)
Venere di sMoravany (23.000 a.C., Slovacchia)
Venere di Laussel (20.000 a.C., Francia)
Venere di Frasassi (20.000 a.C., Italia)
Il culto neolitico della “Dea Madre” è il tenue retaggio di una concezione spirituale nata tra le nebbie del paleolitico e di un mondo ormai scomparso in cui l’uomo viveva a stretto contatto con la natura. La sopravvivenza dipendeva dai frutti che la natura metteva a disposizione dell’uomo perciò è probabile che la prima immagine divina ad essere concepita dalla mente umana fu proprio la “Madre Terra”. Il calore del Sole, l’acqua piovana e sorgiva, i frutti degli alberi e della terra e tutti gli animali erano solo alcuni dei tanti doni che lo spirito della natura metteva a disposizione dell’uomo e pertanto quello spirito, il cui eco si rifletteva in tutte le attività quotidiane svolte dalle femmine del clan, non poteva che essere rappresentata in altro modo se non con il corpo formoso di una donna perché solo nel ventre della donna prendeva forma il miracolo della vita. Lo spirito creativo della “Grande Madre” si manifestava costantemente in ogni cosa del creato e siccome la benedizione della Madre doveva essere sempre presente ovunque l’uomo andasse, era necessario portarla con sé sotto forma di amuleto, insieme a tutti gli utensili necessari alla sopravvivenza.
Lettura tematica consigliata da Civiltà eterne.it
Lista delle principali culture dell’Antica Europa neolitica riportata da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Neolitico#Diffusione_della_cultura_neolitica_in_Europa
Tessaglia, Balcani, regione danubiana
La cultura neolitica si diffuse precocemente nella penisola balcanica, ma è tuttora discusso se si sia trattato di spostamenti di comunità che arrivarono a colonizzare zone precedentemente in gran parte disabitate, ovvero di una precoce adozione da parte delle comunità indigene mesolitiche delle diverse innovazioni della cultura neolitica, in modo a volte scaglionato nel tempo. Il processo di “neolitizzazione” potrebbe anche essersi verificato con modalità miste.
Venere di Pazardzhik. Cultura Cucuteni. Circa 4500 a.C. National History Museum Vienna.
Sesklo (sito in Tessaglia, 6850-4400 a.C. circa) con sviluppo che sembra essere indipendente dai siti del Vicino Oriente, sia per la ceramica, sia per l’allevamento.
Dimini (sito in Tessaglia, dal 4800 a.C. circa).
Cultura di Karanovo (dal sito di Karanovo, in Bulgaria, 6200 – 5500 a.C. circa), per le fasi del Neolitico antico (Karanovo I-II) e del Neolitico recente (Karanovo III-IV).
Cultura di Starčevo-Körös (dal sito di Starčevo presso Belgrado in Serbia e del fiume Körös in Ungheria, 6200-5600 a.C. circa).
Cultura di Vinča (dal sito di Vinča, ancora presso Belgrado, in Serbia, di datazione discussa, ma successiva alla precedente).
Cultura della ceramica lineare (chiamata anche “cultura della ceramica decorata a nastro”, in inglese Linear Pottery culture, o anche Linear Band Pottery, Linear Ware, Linear Band Ware, Linear Ceramics culture, o ancora Danubian I culture secondo Vere Gordon Childe, o Incised Ware Group; in tedesco Bandkeramische Kultur o Linienbandkeramische Kultur, abbreviata LBK): diffusa tra il 5600/5500 a.C. e il 4500 a.C. circa, a partire dal medio corso del Danubio e dal corso medio e superiore dell’Elba e del Reno, alle sue origini fu probabilmente influenzata dalla cultura di Starčevo-Körös dei Balcani.
Nella sua prima fase ebbe un’estensione orientale (“cultura della ceramica lineare orientale”, in inglese Eastern Linear Pottery culture).
Nella sua fase intermedia sviluppò la “cultura della ceramica a note musicali” (Musical Note Pottery culture o Notenkopfkeramik).
Nella sua fase tarda è nota come “cultura della ceramica decorata a punzone” (in inglese Stroked Pottery culture o Stroke-ornamented Ware culture o Danubian culture Ib secondo Vere Gordon Childe; in tedesco Stichbandkeramik Kultur). Giunse ad occupare un’area tra la Moldavia e la valle della Senna.
Cultura di Rössen, successe alla cultura della ceramica lineare in gran parte della Germania, nei Paesi Bassi sudorientali, nella Francia nord-orientale, nel nord della Svizzera e dell’Austria tra il 4600/4500-4300 a.C. circa.
Cultura di Lengyel (sito dell’Ungheria centrale; 4900-4000 a.C. circa). Si diffuse parallelamente alla cultura di Rössen nella Slovacchia sud-occidentale e nell’Ungheria occidentale, estendendosi quindi all’Austria, alla Croazia e alla Polonia.
Cultura di Chassey (dal sito presso Chassey-le-Camp, Saona e Loira). Si diffuse nella valle della Senna e nell’alta Valle della Loira tra il 4500 e il 3500 a.C.
Cultura di Cucuteni-Trypillian (dai siti di Cucuteni, in Romania, e di Trypillja o Tripolje, in Ucraina; 5500/5400 – 2750/2700 a.C. circa), sviluppata lungo il corso alto e medio del fiume Nistro (o Dniester), nell’attuale Moldavia, e estesa verso nord-est fino al fiume Dnepr (o Dnieper), nell’attuale Ucraina.
Mediterraneo
Lungo le coste del mar Mediterraneo si ebbe una rapida diffusione della cultura neolitica (agricoltura e allevamento, ceramica), che ha fatto supporre una colonizzazione da oriente su rotte commerciali marittime già conosciute. In tutta quest’area sono note solo poche località mesolitiche.
Cultura della ceramica impressa. Si diffuse nella prima metà del VI millennio a.C. dalle coste occidentali della penisola balcanica verso le coste adriatiche dell’Italia meridionale, espandendosi fino alla Sicilia e lungo le coste tirreniche. Una variante è la ceramica impressa detta “ligure”, diffusa nell’Italia nord-occidentale e sulle coste francesi, con occupazione di aree differenti da quelle con tracce di frequentazione mesolitica.
Nella seconda metà del VI millennio a.C., all’incirca a partire dal 5400 a.C., la cultura della ceramica impressa (o cardiale) si diffuse sulle coste mediterranee della penisola iberica e fino all’odierno Portogallo. In generale rimasero numerosi gli insediamenti in grotta e le testimonianze di uno stile di vita forse seminomade, che induce ad ipotizzare una diffusione attraverso piccole comunità neolitiche di agricoltori provenienti dal mare che andarono ad occupare le aree lasciate libere dalle comunità mesolitiche locali di cacciatori e raccoglitori, le quali vennero progressivamente, ma lentamente assimilate. Dalle coste si ebbe inoltre una lenta penetrazione verso l’interno (valle del Rodano, valle dell’Ebro).
In Italia meridionale la cultura neolitica della ceramica impressa si diffuse, tra la seconda metà del VI millennio a.C. e gli inizi del V, soprattutto nella regione del Tavoliere e nella valle dell’Ofanto, in Puglia, e in Basilicata, da dove si diffuse verso nord e verso l’interno e la costa tirrenica. Sono presenti insediamenti all’aperto lungo le coste e le valli dei fiumi ed è attestata un’economia basata sulla cerealicoltura e sull’allevamento, integrata dallo sfruttamento delle risorse spontanee. Si tratta di zone dove le comunità locali mesolitiche erano state probabilmente poco consistenti, in modo analogo a quanto sembra sia avvenuto in Grecia. Si susseguirono in quest’ambito varie facies, caratterizzate dallo stile della decorazione ceramica, prima impressa e incisa, poi dipinta.
Una forma di comunicazione espressiva extralinguistica è rappresentata in Salento dall’arte pittorica parietale in grotta, il cui più importante esempio è costituito dai pittogrammi figurativi e simbolico-astratti presenti a migliaia nella Grotta dei Cervi di Porto Badisco (nei pressi di Otranto). La cavità ipogea fu scoperta nel 1970 dal Gruppo Speleologico Salentino di Maglie.
In Sicilia è presente una maggiore continuità rispetto alle locali comunità mesolitiche, in analogia a quanto si riscontra nell’area di diffusione della ceramica cardiale: il sito della grotta dell’Uzzo ha restituito stratigrafie che proseguono senza interruzione dal mesolitico, evidenziando una transizione più graduale, con un’accentuazione delle attività di pesca e raccolta di frutti spontanei nei livelli immediatamente precedenti a quelli neolitici. Anche in quest’area si svilupparono una serie di culture locali nell’ambito della ceramica impressa. L’isola di Lipari venne colonizzata all’inizio del V millennio a.C. da genti provenienti dalla Sicilia per lo sfruttamento dei suoi giacimenti di ossidiana.
In Italia centrale la presenza dell’Appennino determinò la formazione di aree culturali differenziate sul versante tirrenico e su quello adriatico, con diverse facies culturali che si susseguirono l’una all’altra, con parziali sovrapposizioni.
In Italia settentrionale la variante della cultura della ceramica impressa ligure, si affermò sulla costa della Liguria nella prima metà del VI millennio a.C. Alla fine del millennio l’area della pianura padana era interessata da un mosaico di culture accomunate dalla decorazione ceramica. Alla colonizzazione degli agricoltori neolitici, che avevano probabilmente seguito percorsi commerciali già solidamente stabiliti in precedenza, si mescolò l’assimilazione delle pratiche neolitiche da parte delle comunità locali mesolitiche, portando ad attardamenti nell’industria litica e nel mantenimento degli usi di caccia e raccolta. All’inizio del V millennio a.C. il precedente mosaico culturale venne sostituito dall’unitaria cultura dei vasi a bocca quadrata, diffusa dalla Liguria al Veneto. Alla fine del millennio l’area venne progressivamente influenzata dalla cultura di Chassey (in Italia anche detta cultura di Lagozza), originaria della Francia, che finì con il sostituire la cultura precedente.
In Sardegna lo sfruttamento dei giacimenti di ossidiana del Monte Arci portò al precoce sviluppo delle culture neolitiche, introdotte con la cultura della ceramica impressa agli inizi del VI millennio a.C. Vi erano largamente diffusi diversi tipi di monumenti megalitici e si manifestarono diverse culture locali. Nell’ultima fase si introdusse nella parte nord-occidentale dell’isola la cultura del vaso campaniforme, transitata di seguito in Sicilia assieme ad aspetti culturali tipici dell’Occidente atlantico, tra cui la produzione di piccoli edifici funerari a forma di dolmen (fine III millennio a.C.) che raggiungeranno anche la vicina isola di Malta.
Europa nord-occidentale e atlantica
La diffusione della cultura della ceramica lineare si era arrestata prima di raggiungere le coste dell’Atlantico e del Baltico, probabilmente a causa della presenza di comunità di cacciatori e raccoglitori mesolitiche che si limitarono a scambiare con le comunità neolitiche oggetti, materie prime e specie domestiche.
Nelle isole britanniche si ebbe probabilmente una lunga coesistenza di entrambe le culture (comunità di colonizzatori agricoltori neolitici e gruppi locali di cacciatori e raccoglitori di cultura mesolitica). In queste zone ebbero particolare sviluppo i monumenti megalitici di cui l’esempio più celebre è il sito di Stonehenge.
Ulteriore diffusione in Europa centro-settentrionale e orientale
Cultura del bicchiere imbutiforme (in inglese Funnelbeaker culture e in tedesco Trichterbecher culture, abbreviata come TRB). Preceduta dalla “cultura di Ertebølle” (da un sito archeologico danese), ancora di cacciatori-raccoglitori, si diffuse tra il 4200/4000 a.C. circa e il 2700 a.C., dalla foce dell’Elba alla foce della Vistola, e dalla Scandinavia meridionale, alla Danimarca, ai Paesi Bassi e alle coste tedesche e polacche.
Cultura di Narva, diffusa nei paesi baltici, nella Prussia Orientale e nelle vicine aree della Polonia e della Russia. Successe alla mesolitica cultura di Kunda e si prolungò fino alla prima età del bronzo. Nella sua fase tarda subì l’influsso delle culture della ceramica cordata, del bicchiere imbutiforme e dell’anfora globulare.
Cultura dell’anfora globulare (in inglese Globular Amphora Culture e in tedesco Kugelamphoren), occupò tra il 3400 a.C. e il 2800 a.C. la medesima area della cultura del bicchiere imbutiforme nella sua ultima fase e si sovrappose alla zona di diffusione centrale della cultura della ceramica cordata. A sud le fu contemporanea la cultura di Baden e a nord-est la fase finale della cultura di Narva.
Cultura della ceramica cordata o “dell’ascia da combattimento” o “della sepoltura singola” (in inglese Corded Ware culture o Battle Axe culture o Single Grave culture; in tedesco Schnurkeramik o Streitaxt Kultur o Einzelgrabkultur), sviluppata nel tardo Neolitico e fiorita nel calcolitico, fino alla prima Età del bronzo, tra il 3200/2800 a.C. e il 2300/1800 a.C., nell’area tra il Reno e il Volga e nella Scandinavia meridionale, arrivando a sud fino alla Repubblica Ceca e alla Slovacchia.
La cultura del vaso campaniforme (in inglese Bell-Beaker culture o Beaker culture e in tedesco Glockenbecherkultur) si diffuse tra il 2800 e il 1900 a.C. circa dal Portogallo alle regioni della Germania fino al fiume Elba, all’alto corso del Danubio e in Ungheria e ancora nelle isole britanniche, in Sardegna e Sicilia. La sua origine è stata riconosciuta nei Paesi Bassi e nella regione renana
fonti: -Le Dee e gli Dei dell’Antica Europa di Marija Gimbutas. Ed. Stampa alternativa. Trad. a cura di Mariagrazia Pelaia
-http://www.laviadelfemminile.it/grande-madre/matriarcato/principio-le-madri-prima-parte
-https://it.wikipedia.org/wiki/Neolitico#Diffusione_della_cultura_neolitica_in_Europa
-http://storia-controstoria.org/antiche-culture/donne-uccello-e-donne-serpente/
-https://storia-controstoria.org/paleolitico/le-veneri-del-paleolitico/
…bisogna riconoscere che quando noi pensiamo all’uomo della preistoria commettiamo generalmente due grandi ingiustizie nei suoi confronti, sottovalutandone enormemente alcuni aspetti. Sicuramente l’uomo neolitico possedeva meno informazioni rispetto a noi, ma un conto è poter usufruire di numero inferiore di nozioni, un altro è avere una differente predisposizione al ragionamento. Da questo punto di vista, dobbiamo immaginare che il nostro antico progenitore avesse una curiosità intellettuale analoga alla nostra, una capacità di ragionamento simile e che si ponesse già in maniera critica di fronte ai problemi e ai fenomeni naturali. Se pensiamo alla raffinata sensibilità degli artisti che decorarono le grotte di Altamira, in Spagna, o quelle di Lascaux, in Francia, non possiamo non riconoscere nella mano che ha tracciato quelle figure una sensibilità almeno pari alla nostra. La seconda grande ingiustizia che commettiamo nei confronti dell’uomo della preistoria consiste nel sottovalutare enormemente la sua completa e assoluta integrazione nell’ambiente naturale che lo circondava.
-Tratto da “Cieli perduti” di Guido Cossard, UTET-
– Introduzione
I nostri antenati, fin dai tempi più antichi, non si limitarono al ruolo di semplici spettatori dei fenomeni celesti e pertanto scoprirono un nesso tra gli eventi astronomici e l’avvicendarsi delle stagioni. Tra i moti periodici dell’ingranaggio cosmico individuarono i riferimenti necessari a misurare il tempo e sulla base di questi compilarono i primi calendari convenzionali utili a pianificare tutte le attività necessarie alla sopravvivenza.
L’insita necessità umana di conoscere, espressa dal bisogno di comprendere e spiegare il significato delle cose, determinò un lento ma costante accrescimento del sapere e l’evoluzione un pensiero mistico-scientifico che divenne mano a mano più profondo nel corso della rivoluzione neolitica.
L’uomo del neolitico non poteva concepire l’effettiva struttura e le reali proporzioni dello spazio esterno alla terra perciò elaborò confacenti spiegazioni mistiche al fine di attribuire un significato agli eventi celesti. Il Sole, i pianeti e le stelle, con i loro movimenti ciclici, divennero allora oggetto di profonde credenze e venerazioni, le quali influenzarono lo sviluppo dei grandi convincimenti religiosi emersi all’alba dell’epoca storica; ad esempio ispirando i principi della mitologia sumera e della complessa religione egizia.
I primi astronomi ebbero a disposizione soltanto la loro vista e il loro intuito, ciononostante riuscirono a prevedere il moto di tutti i corpi visibili ad occhio nudo e a trasformare la volta celeste in un immenso orologio cosmico adatto a misurare il tempo. Essi raggiunsero questa maestria pur non avendo consapevolezza del fatto che la Terra è un corpo sferico e che essa gira simultaneamente su se stessa e intorno a Sole, ingannando le percezioni dell’uomo. Coloro che in principio osservarono il cielo con l’intento di comprenderne la natura credettero a loro modo che il mondo fosse piatto e immobile e che tutti i corpi celesti vi girassero attorno come se si muovessero su una sorta di cupola sferica dalla consistenza fisica.
Le primitive convinzioni dell’astronomo neolitico si possono pertanto riassumere nella seguente maniera:
La maggior parte dei corpi celesti attraversa il cielo da Est verso Ovest
Tutte le stelle mantengono sempre la stessa distanza le une rispetto alle altre.
Esiste una regione del cielo apparentemente privilegiata dato che le stelle settentrionali ruotano nel cielo senza tramontare mai, mentre tutte le altre sono costrette a sorgere e a tramontare.
Alcune stelle sono visibili soltanto in alcuni momenti dell’anno.
Il Sole si muove nel cielo, e presumibilmente anche sotto la superficie terrestre, seguendo una traiettoria a spirale che ciclicamente allarga e restringe l’ampiezza dei suoi archi.
Il ciclo del Sole dura approssimativamente 365 giorni.
Esiste una relazione tra il moto del Sole e l’alternarsi delle stagioni
Il Sole, in rari casi, viene parzialmente o totalmente oscurato dalla Luna (eclissi di Sole).
La Luna ha un moto più complesso di quello del Sole e un disco luminoso che cambia aspetto ciclicamente nell’arco di 29 giorni solari.
Esiste una relazione tra le fasi lunari e il ciclo della fertilità della donna.
Il disco della Luna, in rare occasioni, viene oscurato parzialmente o totalmente da un’ombra dalla forma leggermente incurvata (eclissi di Luna).
Pochi corpi celesti (i pianeti) possono mutare la loro posizione rispetto alle stelle.
I pianeti scompaiono ciclicamente dal cielo notturno per poi riapparire.
Esistono eventi celesti che non possono essere previsti, in particolare le eclissi e la comparsa di alcuni corpi luminosi di forma sfumata e tendenzialmente allungata (le comete).
L’archeoastronomia combina gli studi di archeologia con quelli di astronomia al fine di indagare la conoscenza e la comprensione che gli antichi abitanti della Terra ebbero dei fenomeni celesti e il ruolo che questi assunsero all’interno delle loro società.
Chiunque voglia approcciarsi a questa combinazione di studi per la prima volta dovrà tenere a mente un punto fondamentale: gli astronomi del neolitico ebbero cognizione soltanto del moto apparente dei corpi celesti mentre le reali dinamiche celate a tergo di questi movimenti illusori rimasero a loro sconosciute.
L’espressione “Moto apparente” identifica dunque un movimento che non è reale, bensì illusorio, in quanto generato dallo spostamento del punto di osservazione. Il movimento dei corpi celesti da est verso ovest, ad esempio, non è un moto reale, ma piuttosto un moto apparente prodotto dalla rotazione della Terra.
Misurare il tempo osservando il Sole
Tempio preistorico di Mnajdra all’alba del solstizio d’inverno, Malta. (3300 a.C.)
– Il moto apparente del Sole
Immaginiamo di seguire il moto apparente del Sole per un anno cominciando le nostre osservazioni nel giorno del solstizio d’inverno. Quel giorno il Sole sorgerà verso sud-est, attraverserà il cielo disegnando un arco molto basso e tramonterà a sud-ovest. Nei giorni successivi i punti di alba e tramonto si sposteranno verso settentrione, mentre l’arco solare aumenterà gradualmente l’ampiezza del suo raggio. Questo spostamento progressivo dei punti di alba e tramonto continuerà per circa sei mesi fino al raggiungimento degli estremi limiti settentrionali nel giorno del Solstizio d’estate. Quel giorno l’ampiezza dell’arco solare sarà massima. Nei giorni successivi il moto apparente del Sole si invertirà, ciò significa che il punto di levata inizierà a spostarsi progressivamente verso meridione. Dopo altri sei mesi il Sole tornerà a sorgere nuovamente all’estremo sud-est nel giorno del solstizio d’inverno.
– Le meccaniche celesti che determinano il moto apparente del Sole
La variazione del moto apparente del Sole è dovuta all’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre. Questa inclinazione, 23°27′ rispetto alla perpendicolare del piano dell’eclittica, determina il cambiamento delle stagioni andando a mutare l’angolo di incidenza con cui i raggi solari raggiungono la superficie del pianeta nell’arco della sua rivoluzione attorno al Sole. Il ciclo delle stagioni di un emisfero è l’opposto di quello dell’altro; quando è estate nell’emisfero boreale è inverno nell’emisfero australe e quando è primavera nell’emisfero boreale è autunno nell’emisfero australe. Se l’asse di rotazione terrestre fosse perpendicolare al piano che contiene l’orbita della Terra non esisterebbero le stagioni dato che l’esposizione al calore e alla luce di una determinata porzione del pianeta sarebbe costante nell’arco di tutto l’anno.
– Prime osservazioni e sistemi di misurazione
Le variazioni del moto solare attirarono l’attenzione dell’uomo fin dal paleolitico per poi essere studiate con maggior precisione durante il neolitico. I nostri antenati riuscirono a determinare la durata di un anno contando il numero di giorni trascorsi tra due solstizi invernali anche se l’epoca esatta in cui questo dato fu ricavato per la prima volta non è definibile.
Gli antichi ebbero modo di osservare il Sole soltanto durante il giorno, tuttavia dedussero che il suo moto proseguisse anche sotto l’orizzonte; essi riconobbero nel moto solare un andamento a spirale giustificato dal riscontro che nel corso di un anno l’ampiezza dell’arco aumenta e diminuisce periodicamente. Il simbolo preistorico della doppia spirale, che aumenta (o restringe) l’ampiezza del suo raggio, venne pertanto concepito per rimandare la mente ad un concetto che, seppur non esposto a chiare lettere, poteva essere recepito da tutti gli individui istruiti a riconoscerne il significato.
I primi dati astronomici relativi ai movimenti del Sole vennero ricavati utilizzando gli elementi immobili della natura (alberi, rocce, montagne) come punti di riferimento per traguardare l’orizzonte da una zona di osservazione prestabilita. In seguito l’uomo si prodigò in osservazioni sempre più precise costruendo osservatori solari adeguatamente progettati. I più semplici furono realizzati orientando il punto di osservazione verso l’orizzonte orientale e piantando due pali nel terreno in corrispondenza degli estremi raggiunti dal punto di levata solare durante i solstizi. Ulteriori pali, piantati a distanze regolari, avrebbero poi consentito di suddividere l’anno in periodi più corti. Fu evidente fin dal principio che un intero ciclo solare poteva essere suddiviso in quattro periodi contraddistinti da condizioni climatiche differenti e che i solstizi e gli equinozi coincidevano approssimativamente con i momenti di transizione tra un periodo e l’altro. Con l’introduzione dell’agricoltura su vasta scala nella Mezzaluna Fertile (8500-7500 a.C.) divenne necessario suddividere l’anno in ulteriori parti in modo da poter pianificare con precisione tutte attività necessarie al sostentamento; vennero perciò compilati i primi calendari convenzionali che obbligatoriamente dovettero tener conto anche di tutti gli appuntamenti rituali legati alle attività umane.
Doppia spirale raffigurata su una pietra “kerbstone” del tumolo preistorico di Newgrenge. IV millennio a.C., Irlanda del Nord. La spirale e la doppia spirale rappresentano il moto apparente del Sole sulla volta celeste.
– Concezione mistica del moto solare e monumenti di pietra
“Il Sole è vita; senza la sua luce e il suo calore nessuna creatura potrebbe esistere”. L’uomo arrivò a questa conclusione osservando una relazione di causa-effetto tra i cicli stagionali del Sole e i periodici mutamenti della natura. Inoltre, ricercando una spiegazione che potesse dare un significato a questa correlazione, maturò nell’uomo la profonda convinzione che i propri destini fossero in realtà stabiliti da una forza sovrannaturale. A conseguenza di questo convincimento nacquero idolatrie più o meno complesse per attirare la benevolenza del Sole.
I primi monumenti di pietra ad unire la funzione religiosa a quella calendariale vennero realizzati nel IV millennio a.C. ma esistono eccezioni più antiche. L’esempio più eclatante si potrebbe trovare all’interno del santuario preistorico di Gobekli Tepe, un sito archeologico ubicato nell’odierna Turchia a circa 20 chilometri dalla città di Şanlıurfa. Gli scavi del sito hanno portato alla luce i resti di un monumentale santuario di pietra dalla presunta correlazione astronomica, le cui parti più antiche sono state datate al 9.500 a.C.. La sua erezione coinvolse obbligatoriamente centinaia di uomini ma nelle aree limitrofe non è stata trovata alcuna traccia di agglomerati urbani, soltanto resti materiali riconducibili ad una occupazione stabile non urbanizzata. Questo dato fa supporre che una società di cacciatori-raccoglitori stanziale e segmentata si adoperò per realizzare santuari circolari con muri di pietra a secco e per erigere imponenti pilastri di pietra che potessero accentrare le concezioni spirituali di una società ampia. I monumenti di pietra del IV millennio a.C. orientati verso i punti in cui sorge o tramonta il Sole durante i solstizi e gli equinozi sono invece molti, i più significativi sono il complesso templare di Mnajdra (Malta) e il suo calendario solare, il circolo di pietra di Stonehenge (Gran Bretagna), il tumulo di Newgrange (Irlanda) e la tomba a corridoio di di Gravinis (Francia).
Numerosi monumenti funebri orientati verso il punto in cui sorge il Sole nel giorno del solstizio d’inverno hanno dimostrato l’importanza rivestita dal ciclo solare nel contesto dei culti preistorici e il rapporto simbolico in essere tra il solstizio d’inverno e la concezione mistica relativa a morte e rinascita. Nel giorno più corto dell’anno il Sole muore metaforicamente, mentre nei giorni successivi al solstizio d’inverno, quando le giornate ricominciavano ad allungarsi, manifesta la sua rinascita. Questo momento dell’anno veniva considerato il punto di partenza che dava il via al rifiorire della natura e simbolicamente era perfetto per rappresentare la rinascita dello spirito dopo la morte.
Misurare il tempo osservando le stelle
–La levata eliaca
Il moto apparente delle stelle è generato grossomodo dalle stesse meccaniche celesti che determinano le variazioni stagionali del moto apparente del Sole pertanto osservando il cielo notturno alla stessa ora in momenti diversi dell’anno potremmo notare che le stelle hanno cambiato posizione.
Un metodo astronomico utilizzato in passato per determinate la durata di un anno era quello di osservare la levata eliaca di una stella. Si dice che una stella è in levata eliaca quando sorge immediatamente prima del sorgere del Sole dopo un periodo di tempo durante il quale la stella non era stata visibile, trovandosi al di sopra dell’orizzonte soltanto nelle ore diurne. Gli astronomi del neolitico avrebbero potuto determinare la durata di un anno osservando la levata eliaca di una stella e contando il numero di giorni trascorsi prima del ripetersi dello stesso avvenimento. Il medesimo principio è valido anche per il tramonto eliaco delle stelle.
–Concezione mistica del fenomeno
I nostri antenati notarono che alcune stelle sorgevano poco prima del Sole nel periodo dell’anno in cui fiorivano determinati alberi da frutto, altre quando cadevano le foglie o quando si approssimavano le prime nevicate, altre ancora nel periodo di maggiore siccità; così il cielo si popolò di stelle (o gruppi dei stelle) riconosciute che con la loro comparsa annunciavano i mutamenti periodici della natura, che a seconda dei casi potevano essere favorevoli o funesti al benessere dell’uomo. La relazione di causa-effetto tra i movimenti delle stelle e l’alternasi delle stagioni in questo caso è soltanto apparente, tuttavia anche le stelle vennero divinizzate siccome ritenute erroneamente comprimarie del Sole nell’influenzare i mutamenti periodici della natura.
La levata eliaca della stella Sirio, ad esempio, era un a ricorrenza di grande importanza per gli antichi Egizi. Questa stella era associata alla dea Hathor, una divinità femminile adorata nel paese già in epoca neolitica, ma anche alla divinità sincretica Hathor-Isis. Il suo apparire all’alba, in prossimità del Solstizio d’estate e dopo 70 giorni di invisibilità, sembrava voler annunciare l’esondazione estiva del Nilo, un evento di grande importanza dato che la quantità e la qualità dei raccolti dell’anno successivo erano direttamente collegate a questo accadimento. Il culto della dea Hathor affonda le sue radici nella preistoria, riproponendo nell’epoca storica il profondo significato mistico della rigenerazione attraverso un’astrazione della fertilità. Già in epoca neolitica il concetto di rigenerazione si estese ben oltre al contesto agricolo e naturale alimentando l’universale speranza coltivata dal genere umano, quella di poter rinascere dopo la morte. Il tempio funerario di Hatshepsut venne consacrato non a caso alla dea Hathor, così come non è casuale il fatto che nel mito di Osiride sia la dea Iside a ricomporre il corpo mutilato del marito assassinato attraverso un primigenio rito di rigenerazione finalizzato a garantirgli un’eterna vita ultraterrena. I principi della mitologia Egizia sono noti grazie alla codifica della scrittura geroglifica mentre i convincimenti preistorici da cui deriva questa complessa mitologia li possiamo soltanto intuire e dedurre dato che il loro sviluppo avvenne all’interno di contesto totalmente illetterato. Le concezioni spirituali e pseudoscientifiche dell’uomo neolitico vennero tramandate oralmente per migliaia di anni attraverso narrazioni rivestite di sacralità e perciò considerate vere per fede; per ricostruirle nella loro forma originale è dunque necessario comprendere il complesso significato simbolico dei culti emersi all’alba dell’epoca storica e i simboli ad essi correlati.
Alcune stelle esterne alla regione circumpolare del cielo possiedono una levata eliaca ben precisa che si ripete ciclicamente a distanza di un anno dunque il sorgere del Sole viene anticipato da stelle diverse in ogni mese dell’anno. Lo spostamento delle stelle rispetto al Sole è in realtà un effetto prospettico; essendo la Terra a muoversi attorno al Sole va a mutare il punto dello spazio da cui lo si guarda creando l’illusione ottica che fa scorrere le stelle sullo sfondo con periodicità annuale. La fascia di cielo che scorre lentamente alle spalle del Sole nell’arco dell’anno corrisponde al piano del Sistema solare in cui giacciono le orbite della Terra e di tutti i corpi celesti che ruotano attorno al Sole. All’interno di questa fascia si trova il piano fondamentale dell’orbita terrestre, definito eclittica. Non ci è dato sapere quali gruppi di stelle avessero riconosciuto gli antichi astronomi all’interno di questa fascia, fatto sta che in tempi recenti è stata suddivisa in dodici costellazioni, che per prospettica scorrono alle spalle del Sole scandendo l’avanzare del tempo con cadenza mensile.
La Luna, una controparte del Sole
– Moti reali della Luna
La Luna è l’unico satellite del nostro pianeta e come tutti i corpi celesti è interessata da diversi moti simultanei. Essa ruota attorno alla Terra in senso antiorario (da Ovest verso est) con un periodo orbitale di circa 27 giorni; questo intervallo di tempo è definito “mese siderale”. Osservandola dalla Terra, invece, attraversa il cielo in maniera apparente da est verso Ovest mostrando sempre la stessa faccia poiché il suo periodo di rotazione coincide con quello di rivoluzione attorno al pianeta. L’illuminazione della sua superficie varia invece di giorno in giorno in base alla posizione che Luna assume rispetto al Sole. Questo fenomeno viene definito “ciclo delle fasi” e dura all’incirca due giorni in più del mese siderale dato che la Terra si muove a sua volta nello spazio e di conseguenza la Luna, dopo aver completato un orbita intorno al pianeta, deve percorrere un’ulteriore distanza per poter raggiungere la posizione di partenza rispetto al Sole.
Il piano immaginario che contiene l’orbita della Luna è inclinato di circa 5° rispetto a quello della Terra, se così non fosse si verificherebbe un eclissi di Sole ogni 29 giorni. I punti di intersezione tra questi due piani sono chiamati “nodi” mentre l’ipotetica retta che li congiunge è detta “linea dei nodi”. La linea dei nodi non è fissa ma ruota lentamente in senso opposto allo spostamento della Luna lungo la sua orbita (moto retrogrado), compiendo un giro completo ogni 18,6 anni. Quando la linea dei nodi è perfettamente allineata con la congiungente Terra-Sole e la Luna transita da uno dei nodi si verifica allora il fenomeno delle eclissi: di Sole quando la Luna oscura il disco solare, di Luna quando la medesima viene oscurata del cono d’ombra prodotto della Terra.
Venere paleolitica di Laussel (25.000 a.C.).
– Concezione mistica del moto lunare
Per prima fu la Luna, e non il Sole, ad attirare l’attenzione dei nostri antenati sull’esistenza dei cicli astronomici. L’illuminazione della sua superficie varia di giorno in giorno configurando una sequenza di fasi periodica nella quale venne riconosciuto il concetto di “tempo ciclico” pur senza che vi fosse una reale comprensione del fenomeno.
L’intera sequenza delle fasi si ripete ad intervalli regolari che durano pressapoco 29 giorni pertanto in un anno si possono contare 13 lune piene. Questo fenomeno parve collegato al ciclo della fertilità femminile e probabilmente venne interpretato come una sorta di figurazione della sequenza “vita-morte-rigenerazione” peculiare dei cicli naturali. L’analisi e la comparazione di alcuni reperti archeologici ha inoltre suggerito che possa esistere una primitiva relazione tra il ciclo delle fasi e il culto della “Grande Madre”, una delle prime idolatrie paleolitiche a concretizzarsi sotto forma di simboli e forme femminili legate alla fertilità.
La Venere di Laussel, ad esempio, è un bassorilievo paleolitico del 20.000 a.C. rinvenuto in Francia sud-orientale che riproduce un’immagine idealizzata del corpo femminile. La figura regge nella mano destra un corno inciso con 13 tacche che per molti è un chiaro riferimento al ciclo delle fasi lunari e al ciclo mestruale della donna; questo dettaglio, combinato con la posizione della mano sinistra e la forma dei fianchi, è letto come un equivocabile riferimento alla fertilità.
– Moto apparente della Luna, sistemi di misura e monumenti di pietra
La Luna era considerata una controparte del Sole ma il censimento dei suoi movimenti si rivelò molto più complesso. Gli astronomi del passato indagarono le caratteristiche peculiari del moto lunare costruendo strutture che fungessero da osservatori. Tra gli osservatori lunari preistorici più importanti si possono citare: il circolo di pietra di Stonehenge (Inghilterra), il complesso cruciforme di Callanish (Scozia) e i monoliti allineati di Carnac (Francia).
La Luna sorge ad est e tramonta ad Ovest ma in alcuni periodi dell’anno attraversa il cielo con una traiettoria più bassa di quella mantenuta dal Sole nel giorno del solstizio d’inverno, mentre in altri con una traiettoria più alta di quella percorsa dal Sole nel giorno del solstizio d’estate. Gli antichi astronomi rilevarono inoltre un altra caratteristica peculiare del moto lunare mediante l’utilizzo dei riferimenti solari. Immaginiamo di seguire per alcuni anni il sorgere della prima Luna piena dopo il solstizio d’estate utilizzando come riferimento il palo che traguarda il punto di levata del Sole sostiziale. Quel giorno la Luna sorgerà di poco spostata alla destra del palo, l’anno successivo ancora un po’ più a destra e così via per quattro anni. Dopo quattro o cinque anni la prima Luna piena dopo il solstizio sorgerà nel punto estremo alla destra del palo (definito punto di arresto), mentre negli anni a venire invertirà apparentemente il suo moto cominciando a spostarsi verso sinistra. Dopo altri quattro anni ritornerà a sorgere in prossimità del palo piantato per studiare il solstizio d’estate e negli anni successivi lo supererà trovandosi a sorgere alla sua sinistra. Il punto di levata continuerà ad incrementare la sua distanza dal palo anno dopo anno fino al raggiungimento del punto estremo alla sinistra del palo. Successivamente il punto di levata lunare tornerà a spostarsi verso destra e dopo alcuni anni supererà nuovamente il palo del solstizio chiudendo un ciclo che nel suo complesso sarà durato approssimativamente 19 anni. Per controllare questo fenomeno sarebbe bastato aggiungere due pali all’osservatorio solare in corrispondenza dei punti di arresto raggiunti dalla prima Luna piena dopo il solstizio d’estate. I punti di arresto lunari sono gli equivalenti dei solstizi per il Sole, ma mentre il Sole raggiunge il solstizio due volte all’anno, a metà giugno e a metà dicembre, i punti di arresto lunari seguono un ciclo di 18,6 anni in rapporto al moto retrogrado della linea dei nodi. Il controllo di questa progressione non aveva particolare significato in rapporto all’antica necessità di misurare il tempo, il periodo interessato dal fenomeno è troppo lungo per poter essere utilizzato come unità di misura in relazione ai bisogni dell’uomo perciò il suo censimento ebbe un fine esclusivamente religioso.
Pietre di Callanish. costa occidentale di Lewis, nelle Ebridi Esterne. Scozia. fonte immagine
Le pietre di Callanish costituiscono un osservatorio lunare tardo neolitico che per secoli rimase al centro di un’intensa attività culturale. Il complesso è situato nelle Ebridi Esterne scozzesi e presenta una pianta cruciforme arricchita da un circolo centrale realizzato con 13 menhir. Ogni 19 anni il complesso si congiunge con il sorgere della Luna che a sua volta si muove lentamente tra i 13 pilastri del cerchio centrale sfiorando l’orizzonte.
L’ultimo allineamento si è verificato nel giugno del 2006, il prossimo sarà visibile approssimativamente nel 2025.
Le eclissi, la perfezione del caso
– Meccanica celeste di un eclissi
Il rapporto tra la Luna e il Sole è strettissimo e in rare occasioni può culminare in un evento di grande impatto emotivo che per secoli ha turbato l’animo umano suscitando timore e preoccupazione. Le eclissi, e in particolare quella di totale di Sole, sono eventi astronomici tutt’altro che scontati, generati da una straordinaria concomitanza di fattori. Tra le infinite possibilità cosmiche è successo che il disco del Sole combaci perfettamente con quello della Luna anche se il Sole è 400 volte più grande. Questa sovrapposizione incredibile si verifica soltanto perché la Luna è 400 volte più vicina alla Terra rispetto al Sole e quando gli passa davanti lo oscura completamente lasciando apparire soltanto la sua corona infuocata.
La Luna ci appare piena quando è diametralmente opposta al Sole, mentre ci appare nera (o nuova) quando si frappone tra la Terra e il Sole. Le eclissi di Sole avvengono sempre quando l’emisfero visibile della Luna è completamente in ombra (Luna nera), al contrario le eclissi di Luna avvengono quando la medesima si trova nella fase di massima illuminazione (Luna piena). Ciascuna di queste due situazioni si ripete ogni 29 giorni, ma le eclissi sono molto più rare perché il piano orbitale della Luna non è allineato con quello della Terra. Poiché i piani orbitali non sono allineati, le condizioni descritte non sono sufficienti a determinare un’eclissi, che in sostanza avviene soltanto quando una Luna piena (o una Luna nera) transita attraverso un nodo, ovvero attraverso uno dei due punti in cui il piano orbitale della Luna si interseca con quello della Terra, nel momento esatto in cui il nodo si trova ad essere allineato con al congiungente Terra-Sole. Durante un’eclissi di Luna la Terra proietta sulla superficie lunare la propria ombra, oscurandola completamente o parzialmente. Durante un’eclissi di Sole la Luna “passando davanti” al disco solare lo ricopre, parzialmente o totalmente.
– Un fenomeno imprevedibile che suscitava preoccupazione
Anche ammettendo una precoce comprensione della periodicità del fenomeno, durante il neolitico la previsione di un eclissi di Sole sarebbe stata impossibile a causa del moto di rotazione terrestre, del quale l’uomo non era ancora consapevole. Un eclissi di Sole dura pochi minuti perciò è osservabile soltanto per un breve periodo di tempo in aree circoscritte del pianeta e gli antichi non avrebbero avuto modo di prevedere il punto della Terra interessato dal fenomeno.
L’uomo ha timore di ciò che non conosce pertanto l’incapacità di poter determinare il momento in cui il fenomeno dell’eclissi avrebbe avuto luogo turbò l’animo umano e fece sì che l’evento fosse percepito come nefasto o di cattivo auspicio. Il benessere dell’uomo dipendeva dal Sole e dalla sua costante progressione inserita all’interno di un meccanismo cosmico perfettamente prevedibile, ma l’improvvisa interruzione della luce e del calore del Sole rompeva questo regolare andamento, ispirando paura e preoccupazione in coloro che ne diventavano testimoni.
I pianeti
I pianeti del sistema solare si dividono in due categorie: quelli interni all’orbita della Terra e quelli esterni. Mercurio e Venere sono i pianeti interni del sistema solare, ciò significa che le loro orbite hanno un raggio inferiore a quello dell’orbita terrestre. Marte, Giove, saturno, Urano e Nettuno (quest’ultimi due non sono visibili ad occhio nudo dalla Terra) sono invece definiti “pianeti esterni” dato che percorrono orbite di rivoluzione intorno al Sole molto più ampie di quella terrestre.
– Moto apparente dei pianeti interni
I pianeti interni hanno un moto apparente molto simile, dunque basterà descriverne uno soltanto prendendo in considerazione quello di Venere per facilità di osservazione.
Moto apparente di Venere in riferimento alla sua posizione registrata ogni giorno nel momento in cui tramonta il Sole (relativo all’anno 2001).
Venere è il pianeta più luminoso del cielo ma non brilla di luce propria, bensì attraverso la luce riflessa dal Sole sulla sua superficie. Poiché è interno all’orbita della Terra appare sempre nelle vicinanze del Sole; prima dell’alba o dopo il tramonto a seconda della sua posizione sull’orbita che percorre. Può precedere l’alba o seguire il tramonto al massimo di 3 ore e periodicamente passa davanti o dietro al Sole entrando quindi in congiunzione con quest’ultimo, condizione che ne impedisce periodicamente l’osservazione dato che il pianeta rimane temporaneamente nascosto dal bagliore solare.
In rare occasioni può essere osservato al mattino (prima dell’alba) e alla sera (dopo il tramonto) nello stesso giorno. Questo periodico evento si verifica quando Venere è alla massima separazione dall’eclittica e nello stesso momento alla congiunzione inferiore. Il fenomeno si ripete ciclicamente ogni otto anni.
Immaginiamo ora di seguire il moto apparente di Venere giorno per giorno iniziando le nostre osservazioni la prima sera in cui il pianeta fa la sua comparsa al tramonto. Venere comparirà all’imbrunire alla sinistra del Sole che sta tramontando e poi tramonterà a sua volta immediatamente dopo il Sole. Sera dopo sera si allontanerà sempre di più dal Sole trovandosi a tramontare sempre più tardi. Dopo alcuni mesi raggiungerà un estremo alla sinistra del punto in cui è tramontato il Sole che non potrà mai superare e in quell’occasione tramonterà all’incirca 3 ore dopo il calare del Sole. In seguito il suo moto apparente si invertirà e giorno dopo giorno tramonterà sempre prima, fin quando una sera, dopo alcuni mesi dall’inversione del suo moto apparente, entrerà in congiunzione con il Sole, scomparendo all’interno del bagliore solare. Il periodo di invisibilità può variare da pochi giorni a settimane a seconda che Venere si trovi a transitare in congiunzione superiore o inferiore. Dopo un breve periodo di invisibilità il pianeta tornerà ad essere osservabile, questa volta al mattino, trovandosi a sorgere poco prima dell’alba in prossimità del Sole. Giorno per giorno la levata di Venere anticiperà sempre di più rispetto a quella de Sole e questa progressione durerà per alcuni mesi fin quando il pianeta raggiungerà un estremo alla destra del Sole che non potrà mai superare. In quel momento Venere sorgerà all’incirca 3 ore prima del Sole. Nei giorni a seguire invertirà il suo moto apparente e ricomincerà ad avvicinarsi al Sole. Dopo alcuni mesi si troverà a sorgere in congiunzione con il Sole e la sua luce sarà nuovamente nascosta dal bagliore solare. A questo punto il pianeta avrà completato un ciclo di 584 giorni che per semplicità può essere riassunto nel seguente modo: visibilità serale, invisibilità, visibilità mattutina, invisibilità.
– Spiegazioni mistiche del moto di Venere
I sumeri costruirono la prima civiltà urbanizzata della storia raccogliendo l’eredità culturale lasciata dei popoli che furono artefici della rivoluzione neolitica avvenuta all’interno della Mezzaluna Fertile. Essi ebbero a disposizione un’enorme bagaglio culturale, dal quale emerse un’elevata capacità di previsione dei cicli astronomici. Nel caso di Venere non ebbero difficoltà a riconoscere che l’astro del mattino e l’astro della sera erano in realtà il medesimo corpo celeste, identificando il pianeta con la dea Inanna, la signora dell’amore, della fertilità e della guerra. La temporanea scomparsa del pianeta in occasione delle sue congiunzioni col il Sole fu invece all’origine di uno dei testi più noti della mitologia sumera: la “Discesa di Inanna agli Inferi”. I sumeri sentirono il bisogno di dare un significato all’esistenza perciò elaborarono infinite spiegazioni che potessero descrivere il perché delle cose, delle manifestazioni della natura (tra cui i cicli astronomici) e di tutti gli eventi legati alle vicende dell’uomo. Venere e gli altri pianeti si spostano modificano costantemente la loro posizione rispetto alle stelle per poi scomparire temporaneamente dal cielo notturno, pertanto l’uomo si sarà interrogato a lungo rispetto al loro peculiare movimento così diverso rispetto a tutte le stelle che non modificano mai la loro disposizione le une rispetto alle altre. La mitologia sumera, al pari di tutte le altre, nacque dunque per spiegare le circostanze per le quali una realtà è venuta ad esistere, e nel caso della discesa di Inanna agli inferi per spiegare la momentanea scomparsa dal cielo dell’astro associato a questa divinità. Le invocazioni e gli inni descrivono Inanna come una donna piena di luce e amore ma anche come una belva assetata di sangue, che fa scempio dei corpi dei nemici sul campo di battaglia, straziandone le carni. Probabilmente l’origine di questa doppia personalità affonda le sue radici nelle credenze neolitiche legate alla doppia apparizione del pianeta Venere (una al mattino e una alla sera) che per ovvi motivi non possono essere ricostruite nel loro stato originario. Nel millennio successivo i Babilonesi registrarono i periodi di invisibilità di Venere per 21 anni consecutivi nella tavoletta 63 del manuale astrologico Enuma Anu Enlil (tavoletta di Venere di Ammi-Saduqa).
– Moto apparente dei pianeti esteri
I pianeti esterni seguono orbite di raggio maggiore rispetto a quello della Terra pertanto il loro moto apparente è diverso da quello dei pianeti interni. Osservandolo dalla Terra nell’arco della loro rivoluzione attorno al Sole possono assumere quattro posizioni fondamentali:
Congiunzione – Quando il pianeta si trova sulla congiungente Terra-Sole, in maniera che il Sole si trovi tra la Terra e il pianeta. In questa occasione il pianeta rimane nascosto dal bagliore solare e pertanto risulta inosservabile
Opposizione – Quando il pianeta si trova sulla congiungente Terra-Sole, in maniera che la Terra si trovi a transitare tra il Sole e il pianeta. In questa occasione il pianeta si trova nelle migliori condizioni di visibilità notturna.
esistono poi due quadratura intermedie, quando il pianeta si trova a 90° rispetto alla congiungente Terra-Sole
Le orbite intorno al Sole dei pianeti esterni hanno periodo superiore ad un anno Solare dunque la loro posizione rispetto alle stelle fisse assume un moto retrogrado del quale ci si può rendere conto osservando il cielo notturno ogni sera alla stessa ora.
Lettura tematica consigliata da Civiltà eterne.it
Fonti
Cieli Perduti. Archeoastronomia; Le stelle dei popoli antichi. Guido Cossard. Edizione Utet.
http://planet.racine.ra.it/testi/luna.htm http://www.saperescienza.it/rubriche/matematica-e-astronomia/l-uomo-e-la-luna-parte-i-22-7-16/1270-l-uomo-e-la-luna-parte-i-22-7-16 http://www.claudioarditi.it/motidellaluna.html http://stelle.bo.astro.it/archivio/2004.06.08-transito-venere/SolePianeti/planets/lmoto.htm http://www.ilcalderonemagico.it/artic_corpo_femminile_mediterraneo.html http://www.paleolithicartmagazine.org/pagina5.html http://www.flyorbitnews.com/2016/12/02/astronomia-nei-secoli-da-mito-a-scienza-iaparte/
https://www.astrogeo.va.it/astronom/pianeti/selenolo/moti.html https://it.wikipedia.org/wiki/Grande_Madre
I primi contadini del neolitico praticarono la cosiddetta “agricoltura secca”, ciò significa che l’irrigazione dei campi era affidata unicamente alle precipitazioni piovose. La produttività dei primi modelli agricoli doveva sperare in un buon apporto di acqua piovana perciò possiamo immaginare che una sola stagione di siccità avrebbe compromesso la produttività delle coltivazioni, condizionando la vita di un intero villaggio. Questa condizione sfavorevole venne migliorata per la prima volta nel corso del IV millennio a.C. in Bassa Mesopotamia con l’introduzione dell’agricoltura irrigua, basata sullo sfruttamento delle acque fluviali mediante la costruzione di canali che permettevano l’irrigazione periodica e programmata dei campi. L’agricoltura irrigua e altre innovazioni fondamentali vennero introdotte quasi simultaneamente e con successo anche in altre zone del Vicino Oriente dell’Asia. Le civiltà che si svilupparono nel bacino idrografico del Tigri e dell’Eufrate, nella valle del Nilo e lungo il corso dell’Indo, vennero perciò chiamate civiltà fluviali o idrauliche. Intorno ai grandi corsi d’acqua sopracitati nacquero sistemi socio-economici capaci di produrre eccedenze alimentari che potevano sostenere la vita nei centri abitati, favorendo lo sviluppo di una moltitudine di attività commerciali e artigianali. I villaggi sorti nei territori più fertili del Vicino Oriente si ampliarono in maniera esponenziale fino a diventare vere e proprie città caratterizzate da una complessa stratificazione sociale e da un’elevata specializzazione del lavoro: l’agricoltura e la pastorizia erano infatti molto sviluppate e la produzione di eccedenze alimentari permetteva agli abitanti di dedicarsi ad altre attività. Anche i centri di culto ebbero un ruolo importante nello sviluppo delle prime città, dato che divennero poli di attrazione nei confronti dei villaggi vicini sprovvisti di un tempio. Questo fenomeno di accentramento urbano si concretizzò per la prima volta in Bassa Mesopotamia contemporaneamente allo sviluppo della civiltà Sumera. Per indicare le complesse trasformazioni che portarono alla nascita delle città e le conseguenze che tale fenomeno determinò sul piano sociale ed economico, gli storici utilizzano l’espressione “rivoluzione urbana”.
La differenza tra i villaggi neolitici e le prime città non si limitava alle dimensioni, nelle città si svilupparono mano a mano complesse politiche, economie e religioni, determinando una maggiore stratificazione sociale; contadini e i pastori erano impegnati nella produzione del cibo, in minor numero rispetto al passato grazie all’introduzione delle tecniche speciali, gli artigiani lavoravano l’argilla, il cuoio e i metalli, con i quali fabbricavano manufatti di vario genere che potevano essere barattati dai mercanti. Una classe amministrativa controllava la costruzione dei canali e la disposizione dei campi agricoli e registrava la raccolta e la distribuzione dei prodotti alimentari raccolti. I soldati provvedevano alla difesa delle scorte di cibo e delle ricchezze accumulate. I sacerdoti, infine, interpretavano i segni celesti e si occupavano delle cerimonie religiose per far sì che le divinità protettrici si mostrassero benevole nei confronti degli uomini che abitavano la città. L’improvvisa evoluzione dei centri urbani avvenuta in Bassa Mesopotamia nel corso del IV millennio a.C. favorì lo sviluppo di moltissime attività, che per essere controllate e sfruttate a livello economico su tutto il territorio necessitarono di un sistema di controllo indiretto. A questo scopo, nell’arco di un periodo relativamente breve, vennero introdotti segni grafici, pesi di misura e recipienti standard, con i quali si poterono compilare elenchi contabili delle attività commerciali e dei prodotti. L’evoluzione della scrittura cuneiforme fu perciò una conseguenza dell’urbanizzazione.
Sigillo sumero che mostra un’attività agricola. Una bestia da soma trascina l’aratro seminatore (apin) mentre due uomini lo guidano. Questo strumento era dieci volte più efficace della zappa nel lavorare la terra e seminare
La stratificazione sociale sommariamente descritta fu possibili grazie alla produzione di eccedenze alimentari. Le innovazioni tecniche che portarono a questa evoluzione agricola sono perfettamente descritte nel testo sottostante, tratto del libro “Uruk, la prima città” di Mario Liverani.
Tratto da”Uruk, la prima città” di Mario Liverani. Edizione Laterza
La questione dell’accumulazione primaria di eccedenze alimentari, in termini che siano archeologicamente verificabili, può porsi nel modo seguente: nella fase immediatamente anteriore al decollo urbanistico e organizzativo della grande Uruk (tardo-Uruk, ca. 3500-3000) possono individuarsi fattori tecnici o di altra natura che accrescano la produzione agricola ad un tasso accelerato e comunque superiore al tasso di aumento demografico? La risposta viene da tutto un complesso di innovazioni da collocarsi (come vedremo) durante la fase antico-Uruk (ca, 4000-3500), e che sono correlate tra di loro a comporre un complesso organico e inscindibile. La documentazione relativa è solo in parte ben nota, in parte invece non ancora adeguatamente valutata – e certo non valorizzata in riferimento al problema della rivoluzione urbana.
Il campo lungo. La necessità di una sistemazione idraulica del territorio basso-mesopotamico, come fattore indispensabile per la crescita demografica, produttiva e organizzativa sfociata nella prima urbanizzazione, era ben presente fin dal tempo di Childe. E del resto la coincidenza delle zone di alluvio irriguo con le sedi delle più antiche civiltà era un fatto già avvertito dagli studiosi del secolo scorso, e che darà luogo alla famigerata (e certamente abnorme) teoria del <<dispotismo idraulico>> come definito da Karl Wittfogel. Ma solo di recente si è messo in evidenza come il momento essenziale in tale processo sia stata la messa a punto del sistema dei campi lunghi, con irrigazione a solco. Nell’alluvio basso-mesopotamico sono storicamente attestati due sistemi di irrigazione, ben diversi tra loro: l’irrigazione a bacino e l’irrigazione a solco, rispettivamente adattabili meglio alle due sotto-zone idrologiche e geo-morfologiche della <<valle>> e del <<delta>>. L’irrigazione a bacino, che comporta la completa sommersione del campo sotto un sottile strato d’acqua (poi rapidamente assorbito da terreno per percolazione verticale), viene praticata in campi quadri recintati da un piccolo argine. Questi campi sono necessariamente di modeste dimensioni e perfettamente orizzontali (altrimenti la sommersione non sarebbe omogenea), e possono essere sistemati anche individualmente, a livello famigliare, e con modesta necessità di coordinamento con i campi contigui. Comportano dunque una gestione di ambito famigliare e di villaggio, e una sistemazione idraulica del territorio per aggiustamenti parziali e progressivi, senza bisogno di particolare pianificazione e centralizzazione. Invece l’irrigazione a solco viene praticata in campi lunghi, sottili striscie parallele tra loro, che si estendono in lunghezza per molte centinaia di metri, in leggera e regolare pendenza, e che hanno una <<testata alta>> adiacente al canale da cui ricavano l’acqua, e una <<testata bassa>> verso acquitrini o bacini di drenaggio. L’acqua inonda solo i solchi, e il terreno è imbevuto per percolazione orizzontale. Questi campi, data la loro dimensione e il loro rigido posizionamento rispetto al canale, possono essere convenientemente sistemati solo in maniera coordinata e pianificata, colonizzando ex novo un’area piuttosto estesa, con grossi blocchi di campi paralleli ordinatamente disposti a spina di pesce ai lati del canale. La costante inclinazione del terreno si adatta alla morfologia del delta, con canali sopraelevati (per accumulo di sedimenti) entro i loro argini, e bacini o paludi laterali di sfogo dell’acqua eccedente. I campi lunghi dunque richiedono per l’impianto e la gestione la presenza di un’agenzia centrale di coordinamento. Una volta istallati, consentono una produttività su più larga scala, in connessione con le altre innovazioni che vedremo subito. I campi lunghi – che la documentazione successiva mostra prevalenti nel sud basso-mesopotamico – sono già ben presenti nella prima documentazione amministrativa <<arcaica>> di Uruk III (sia nel sud sia nel nord); e sono del resto implicati dalla forma stessa del segno arcaico sumerico per <<campo>> (gan2) che chiaramente riproduce un blocco di campi lunghi perpendicolari ad un canale. Nei testi amministrativi arcaici, i campi lunghi sono organizzati in blocchi di grandi dimensioni, e di gestione centralizzata (nella fattispecie templare).
Aratro seminatore sumero. Nel sigillo della fig.1 il dio Enlil lo impugna nella mano destra, nella fig.2, invece, viene tirato da una bestia da soma.
L’aratro seminatore. La lavorazione del campo lungo è strettamente connessa all’introduzione dell’aratro a trazione animale, che solo può consentire di scavare solchi rettilinei della lunghezza di molte centinaia di metri. Lo stesso aratro può a sua volta aver contribuito (assai secondariamente rispetto ai problemi dell’irrigazione) a configurare i campi lunghi, facendo risparmiare (a parità metrica di solco) i momenti della rotazione e riposizionamento: si tenga presente che i testi posteriori documentano che l’aratro era trainato da due o tre coppie di buoi, e dunque qualcosa di tutt’altro che maneggevole. E’ comunque evidente che l’aratro a trazione animale comporta un risparmio di tempo enorme rispetto all’esecuzione dello stesso lavoro alla zappa, a parità numerica di personale impiegato. La triplice connessione <<campo lungo – irrigazione a solco – aratro a trazione animale>> è talmente stretta e organica che non si potrebbe immaginare il funzionamento del sistema se non nella sua coerente completezza. Al momento della semina, poi, l’aratro a trazione animale si trasformava in aratro-seminatore, mediante l’istallazione di un imbuto a cannello che consente di mettere a dimora i semi – uno per uno – ben addentro il solco. L’uso dell’aratro-seminatore porta a minimizzare le perdite di semente rispetto alla semina per dispersione, e dunque a migliorare (nell’ordine del 50%) il rapporto tra semente e raccolto. Ciò contribuisce a spiegare l’altissima produttività della cerealicoltura basso-mesopotamica (famosa già per Erodoto, e confermata dai dati testuali) che resterebbe stupefacente col sistema della semina manuale per dispersione. Naturalmente la collocazione a dimora dei singoli semi, ben addentro nel solco, è praticabile solo mediante l’aratro seminatore a trazione animale, altrimenti (con operazione manuale) richiederebbe un tempo enorme. Se raffigurazioni complete dell’aratro-seminatore all’opera risalgono solo ad epoche più tarde, però il relativo segno sumerico apin è già ben attestato nei documenti arcaici di Uruk IV e III.
La slitta trebbiatrice. L’utilizzazione della trazione animale – con conseguente risparmio di tempo e manodopera – si applica anche ad altre due operazioni: la trebbiatura e il trasporto del raccolto. La trebbiatura viene praticata in apposite aie, mediante una slitta trainata da un asino, con numerose file di lamette di selce inserite sotto il pianale. E’ l’attrezzo chiamato tribulum dia latini, e attestato ancora in età moderna (prima dell’avvento della meccanizzazione) in un’ampia area che abbraccia il Vicino Oriente e il Mediterraneo. Per il periodo di Uruk, se ne hanno attestazioni iconografiche; e si hanno anche concentrazioni di lamette di selce spiegabili come appartenenti a slitte da trebbiatura. Il caratteristico <<lustro>> che le lamette di selce acquistano col ripetuto taglio di spighe di cereali, e che tradizionalmente è fatto risalire all’uso delle lamette nei falcetti da mietitura, può altrettanto bene risalire al loro uso nelle slitte da mietitura. Tra i segni della scrittura arcaica di Uruk IV-III è anche attestato (peraltro raramente) il carro a quattro ruote, evidentemente impiegato per il trasporto del raccolto. In generale, la diffusione della trazione animale rientra in quella che è stata definita <<rivoluzione secondaria>> (rispetto alla rivoluzione agro-pastorale all’inizio del neolitico), che ebbe luogo nel millennio a ridosso dei processi della prima urbanizzazione. Si noti peraltro che i bassa Mesopotamia (come pure nella valle del Nilo, e in gene nelle vallate alluvionali) il mezzo più economico ed efficiente per il trasporto del raccolto dai campi alle aie e dalle aie ai magazzini era costituito dalla barche, che potevano usare la fitta rete di canali e rami fluviali.
I falcetti di terracotta. Infine, la mietitura di grandi estensioni cerealicole si avvale di un attrezzo quale il falcetto di terracotta, a forma di mezzaluna e col bordo interno affilato, il cui costo di manifattura è estremamente basso in confronto a qualunque altro tipo di lama (di selce, per non dire poi di metallo), e consente dunque l’utilizzo simultaneo di manodopera numerosa. Il falcetto di terracotta, presumibilmente di tipo <<usa e getta>>, stante il rapido deterioramento dell’affilatura, non ricostruibile, caratterizza la bassa Mesopotamia nel periodo tardo -Ubaid e antico-Uruk, dunque proprio il periodo formativo del sistema di cerealicoltura intensiva quei delineato.
Lettura consigliata da Civiltà eterne.it
Fonte:
“Uruk, la prima città” di Mario Liverani. Edizione Laterza