“Dea Madre”, seduta, con accanto due leopardi, rinvenuta a Çatal Höyük (6000-5500 a.C.). Museo della Civilizzazione Anatolica, Ankara

La sopravvivenza delle comunità del passato era strettamente correlata alla ciclica rigenerazione dell’ambiente naturale perciò l’adorazione della natura assunse un ruolo di prim’ordine fin dall’epoca paleolitica. Il calore del Sole, l’acqua corrente, i frutti della terra e gli animali selvatici erano doni preziosi per i nostri antenati pertanto quell’inconoscibile spirito creativo che dona vita a tutte le cose, e il cui eco si rifletteva nella capacità riproduttiva di tutte le donne, non poteva essere rappresentato in altro modo se non con il corpo formoso di una “madre”. Il corpo della donna, come le stagioni, il Sole e la Luna, segue dei cicli e per questo è logico ipotizzare che i nostri antenati lo avessero iconizzato al fine di rappresentare quel principio di vita, morte e rinascita che perpetua tutti i cicli della natura. Gli antichi immaginarono che tutto potesse essere rigenerato da una forza sovrannaturale e siccome il suo influsso benevolo doveva essere sempre presente ovunque l’uomo andasse, era necessario portarlo appresso sotto forma di amuleto, insieme a tutti gli utensili necessari alla sopravvivenza. Nacque pertanto il fenomeno artistico delle “veneri paleolitiche”, piccole statuette che raffigurano il corpo femminile con attributi sessuali pronunciati ritratti con particolare realismo a dispetto del resto del corpo, sempre rappresentato in modo assai approssimativo. Probabilmente queste statuette paleolitiche non erano la rappresentazione di una divinità vera e propria, piuttosto un simbolo ben augurante di fertilità e prosperità.

I concetti spirituali connessi alla fertilità e alla rigenerazione si rafforzarono all’alba del neolitico, all’interno delle prime comunità sedentarie del Medio Oriente. Quanto detto è ben documento nei siti preagricoli del Levante e del medio Eufrate, in particolare a El Khiam, Gilgal, Nahal Oren e Mureybet; quest’ultimo sito in particolare ha fornito documenti molto espliciti: otto statuette femminili scolpite nella pietra, caratterizzate da un accentuato dimorfismo sessuale. In seguito, e durante tutta la storia di Mureybet, delle corna di toro furono sempre inserite nelle pareti degli ambienti domestici al fine di creare una dimensione simbolica di difficile lettura. Attorno al 9500. a.C., in un contesto di sussistenza ancora dominato dalla caccia e dalla raccolta, ma prossimo all’introduzione delle prime economie agricole, furono queste le figure simboliche dominanti, la donna e il toro, che in seguito assumeranno un ruolo di primo piano nell’iconografia religiosa del Vicino Oriente e del Mediterraneo.[1] La taurocatapsi fu un motivo ricorrente dell’arte figurativa dell’età del bronzo, in particolare nella Creta minoica, nell’Anatolia ittita, nel Levante, nell’Asia centrale e nella Valle dell’Indo. Il toro fu inoltre una figura di massima importanza anche nella religione egizia; il culto del toro sacro Apis è infatti attestato fin dalla I dinastia faraonica e i riti connessi a questa figura erano direttamente connessi ai poteri regali del faraone.

Le rappresentazioni del corpo femminile si moltiplicarono durante il neolitico in concomitanza con lo sviluppo delle prime economie agricole materializzando nell’arte figurativa tutti quei convincimenti spirituali connessi al tema della fertilità e della rigenerazione che presero forma nell’immaginario dell’uomo durante il Paleolitico e il mesolitico. Parallelamente alla diffusione delle tecniche produttive la distribuzione delle statuette femminili si estese a tutta la Mezzaluna Fertile, da Cayunu, in Siria, a Tell es-Sawwan, in Mesopotamia, da Jarmo, sui Monti Zargos, a Tell es-Sultan, in Giordania, fino a Çatal Hüyük, in Analtolia, dove sono state rinvenute numerose rappresentazioni della “Dea Madre”, templi a lei dedicati e altri simboli di fertilità.

Sito archeologico di Çatal Hüyük. Anatolia Centrale (7400 a.C. e il 5700 a.C.). fonte immagine

Çatal Hüyük è un’imponente insediamento neolitico dell’Anatolia centrale che fu abitato approssimativamente tra il 7400 a.C. e il 5700 a.C. da una società agricola e pastorale che faceva largo uso di ceramica. I suoi resti sono di fondamentale importanza per l’indagine del culto neolitico della Dea Madre, in particolare per la continuità culturale che emerge con i siti natufiani e neolitici distribuiti nella frangia sud-orientale dell’Anatolia e nelle regioni interne del Levante e del medio Eufrate.
L’archeologo James Mellaart, che nel novembre 1952 scoprì Çatal Hüyük, è sempre stato convinto che qui fosse riposta la chiave delle origini della civiltà nel Vicino Oriente. [5]

“Questa civiltà neolitica non fu creata nel corso di una notte, ma rappresenta il culmine di un processo che deve essere cominciato nel Paleolitico superiore (circa 35.000-10.000 a.C.), epoca in cui apparve l’uomo moderno… Numerosi elementi di Çatal Hüyük mostrano collegamenti col lontano passato: l’antropologia del nucleo della popolazione, l’usanza di seppellire gli scheletri dopo averli colorati con ocra rossa, le pitture decorative dei santuari con l’uso di frammenti di stalattiti per il culto, a reminiscenza dei primitivi santuari realizzati nelle caverne.

Tratto da “Dove nacque la civiltà” DIJames Mellaart, 1981 Newton Compton. disegni di Shirley Felts e Edgar Holloway ; adattamenti e integrazioni di Anna Enrico; traduzione di Gigliola Giorgi.

Çatal Hüyük è costituito da dieci strati di resti abitativi caratterizzati da piccoli ambienti rettangolari addossati l’uno all’altro. A causa della ripetuta erosione si sono potute conservare soltanto le fondamenta delle abitazioni e la parte inferiore delle pareti, ciò nonostante sono stati recuperati altorilievi di straordinaria bellezza e parziali pitture murarie dall’evidente significato simbolico. I soggetti rappresentati con maggior frequenza sono costituiti da scene di caccia, teste di tori e figure femminili.
Le statuette femminili ebbero una posizione di rilievo anche nell’arte della popolazione di Çatal Hüyük ed è proprio qui che comprendiamo che questa immagine, la cui origine si perde nelle nebbie del Paleolitico, era ormai divenuta una Dea. [2]

Alcune delle più vivaci testimonianze di questa tradizione artistica ginecentrica ci giungono dagli scavi di Mellaart a Çatal Hüyük. Qui, nel più vasto sito neolitico conosciuto del Vicino Oriente, si trovano trentadue acri di resti archeologici. E’ stato scandagliato appena un ventesimo della collina, ma solo con questo scavo è venuto alla luce un periodo che abbraccia all’incirca ottocento anni, pressappoco dal 6500 al 5700 a.C. Si è scoperto un centro artistico notevolmente avanzato, con dipinti murali, rilievi intonacati, sculture di pietra e grandi quantità di statuette d’argilla della Dea, tutti dedicati al culto di una divinità femminile…[…]…<<La civiltà urbana, che è stata a lungo ritenuta un’invenzione della Mesopotamia, ha predecessori in siti come Gerico o Çatal Hüyük, in Palestina e Anatolia, che per molto tempo sono stati considerato arretrati>>. Inoltre, ora conosciamo un altro fattore molto importante per lo sviluppo iniziale della nostra evoluzione culturale: in tutti i luoghi dove avvennero i primi grandi progressi della nostra tecnologia materiale e sociale, per usare la frase che Merlin Stone ha immortalato in un titolo di un libro, Dio era una donna.

Tratto da “Il calice e la spada, la civiltà della Grande Dea dal neolitico ad oggi” di Riane Eisler, FORUM editrice universitaria Udine (terza stampa 2018, Traduzione curata da Vincenzo Mingiardi). Pag 56-57

A Çatal Hüyük sono stati rinvenuti altorilievi monumentali della Dea, con braccia e gambe divaricate nell’atto di dare alla luce dei tori. I tori tuttavia non furono rappresentati per intero, sotto le immagini della Dea furono infatti realizzate successioni in serie di bucrani d’argilla, tre o quattro, a quali vennero aggiunte le corna dei tori cacciati, o sacrificati. Sui muri degli ambienti domestici di Çatal Hüyük sono stati inoltre rinvenute un numero significativo di appendici cupoliformi, simili a seni femminili, da cui sporgevano oggetti di vario tipo: denti di volpe, grani di donnola e cinghiale, becchi di avvoltoio e altri resti di altri animali selvatici, similmente a quanto rilevato all’interno delle “case utero” dei primi insediamenti stabili del natufiano.[3] Questo curioso assemblaggio di simboli ebbe anche una valenza funeraria dato che gli ambienti domestici erano utilizzati anche come luogo di sepoltura per mantenere i morti nella sfera esistenziale dei vivi; ciò dimostra che la padrona della vita regnava anche sulla morte e presumibilmente sulla possibilità di tornare alla vita, seppur in una dimensione ultraterrena.
A Çatal Hüyük ogni abitazione era divisa in due stanze; al centro dell’ambiente più grande veniva collocato un focolare rotondo e intorno ad esso dei sedili di argilla e delle piattaforme elevate per coricarsi. In un angolo della stanza c’era un forno per cuocere il pane mentre la stanza più piccola era una dispensa per la conservazione del cibo. Tra una casa e l’altra c’erano dei cortili usati come stalle per le capre e le pecore. Sebbene due terzi delle case erano decorati con immagini simboliche queste abitazioni non erano santuari: il culto è ancora una prerogativa domestica e dà conto di una “ossessione simbolica”, quella di un aggregato di umani che vivono a stretto contatto con i propri morti e che ha da tempo associano in maniera istintiva la penetrazione sessuale alla sepoltura dei semi per l’agricoltura. Il simbolismo del toro, animale di indomito spirito che all’epoca non era ancora stato addomesticato, venne probabilmente adottato come controparte maschile dalla dea Madre, concentrando in un’immagine il potere creativo dell’inseminazione che anticipa la creazione della vita attraverso il corpo della donna.

Lettura tematica consigliata da Civiltà eterne.it
“Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin

Fonti

[1]“Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini, Pag.53
Titolo originale “Naissance des divinitè. Naissance de l’agricolture. La révoution des symboles au Néolithique, 1994 CNRS Editions, Paris

[2]“Nascita delle divinità. Nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico” di Jacques Cauvin, 2010 Editoriale Jaka Book. (prima edizione italiana 1997. Traduzione di Marco Fiorini, Pag.54
Titolo originale “Naissance des divinitè. Naissance de l’agricolture. La révoution des symboles au Néolithique, 1994 CNRS Editions, Paris

[3]“Costruirono i primi templi. 7000 anni prima delle piramidi” di Klaus Schmidt, 2016 Oltre Edizioni. Traduzione di Umberto Tecchiati. Pag.59
Titolo originale “Sie bauten die ersten Tempel”, Verlag C.H. Beck oHG. 2007, 2011, 2013, 2014, 2016

“Dove nacque la civiltà” DIJames Mellaart, 1981 Newton Compton. disegni di Shirley Felts e Edgar Holloway ; adattamenti e integrazioni di Anna Enrico; traduzione di Gigliola Giorgi.

“Il calice e la spada, la civiltà della Grande Dea dal neolitico ad oggi” di Riane Eisler, FORUM editrice universitaria Udine (terza stampa italiana 2018, Traduzione curata da Vincenzo Mingiardi)        pag.56-57
Prima edizione italiana: Pratiche 1996.
Seconda edizione italiana: Frassinelli 2006 

Titolo originale “The chalice and the Blade. Our history, our future” 1987, 1995.

[4] https://storieedintorni.com/2015/09/25/le-prime-citta-dea-madre-e-culto-dei-morti/