I documenti storici che risalgono alla IV dinastia sono scarsi e frammentari e la maggior parte delle informazioni di cui si dispone provengono da documenti redatti in epoche successive. Tra questi i più importanti sono una stele incisa durante la V dinastia chiamata “Pietra di Palermo”, un canone reale redatto durante la XIX dinastia chiamato “Papiro di Torino” e le tavole murarie del medesimo periodo recuperate a Karnak, Abidos e Saqquara.
Menetone, un sacerdote di Eliopoli del III secolo a.C, scrisse la cronologia delle dinastie egizie all’interno di un documento di cui ci sono pervenuti soltanto pochi frammenti, ciò nonostante il suo contenuto è per lo più noto grazie alle ricostruzioni storiche redatte dagli storici greco-romani, i quali trascrissero nelle loro opere le informazioni acquisite durante la loro permanenza in Egitto. Tutte le informazioni disponibile sono state valutate dagli egittologi al fine di ricavarne una cronologia dinastica che comprendesse le durata di ogni singolo regno, tenendo conto del fatto che questi documenti si basano su informazioni indirette, e che in quanto tali possono contenere significative incongruenze e lacune.
Erodoto di Alicarnasso
“Storie” di Erodoto è considerato uno dei primi esempi di letteratura storiografica occidentale e non a caso Cicerone si riferì a questo autore definendolo “Il padre della storia”. Erodoto di Alicarnasso nacque all’inizio del V secolo a.C., poco dopo che l’Impero persiano tentò d’imporre la sua autorità su tutte le poleis greche costiere. Intraprese numerosi viaggi, nel corso dei quali realizzò inchieste di carattere storico, ricercando le cause che portarono al conflitto tra l’Impero persiano e le poleis unite della Grecia. Dalle sue opere emerge la volontà di slegare la memoria storica dal mito e il tentativo di fermare nel tempo le reali gesta degli uomini che fecero la storia. Tuttavia nel più dei casi dovette basare le sue ricostruzioni dei fatti su notizie indirette e sebbene fosse propenso ad estrapolare dai racconti epici il valore pedagogico, non mancano i casi in cui si può intuire una certa tendenza a considerare veritiere storie che favoleggiano imprese leggendarie del passato. La prima parte di “Storie” descrive la Persia, l’Egitto, la Lidia, la Scizia e la Tracia, coprendo un ampio arco temporale che va dalla prima epoca egizia all’inizio delle guerre persiane avvenuto nel 494 a.C.. I suoi viaggi lo portarono a visitare Egitto dove rimase affascinato dalla monumentale architettura e in particolare dalle piramidi edificate sulla Piana di Giza, tanto da volerne riportarne la loro storia. Consultò i documenti dei templi e intervistò i sacerdoti di Menfi, al fine di raccogliere informazioni sulla cultura di quel paese e sugli uomini che realizzarono le opere monumentali di Giza.
124 [1] – I sacerdoti dicevano che fino a re Rampsinito c’era stato in Egitto un ordine perfetto e grande prosperità. Mentre Cheope, il suo successore, l’avrebbe ridotto alla più squallida miseria. Anzitutto, dicono, chiuse tutti i santuari e proibì i sacrifici; quindi impose a tutti gli egiziani di lavorare per lui. [2] Agli uni impose di trascinare le pietre fino al Nilo dalle cave dei monti arabi; e ad altri ordinò di ricevere le pietre che avevano passato il fiume su battelli, e di trascinarle fino ai monti chiamati libici. [3] – Ogni trimestre lavoravano a turno centomila uomini. E il popolo si logorò dieci anni per costruire la strada su cui venivano trascinate le pietre. Un’opera che è, a parer mio, non di troppo inferiore alla piramide: [4] giacché la sua lunghezza è di cinque stadi, la larghezza di dieci orge, l’altezza della scarpata raggiunge, dove tocca il massimo, le otto orge. La strada è fatta di pietra levigata e con figure incise. Occorsero dunque, per essa, e per le camere sotterranee nella collina su cui sorgono le piramidi, quei dieci anni. Il re costruì le camere, destinate alla sua sepoltura, in un’isola, che egli creò col condurre dal Nilo fin là un canale. [5] Per la costruzione della piramide occorsero vent’anni. Essa è quadrata. Presenta da tutti i lati una faccia di otto plettri, un’altezza uguale. E’ di pietre levigate e perfettamente connesse, di cui nessuna misura meno di trenta piedi
125 [1] – Questa piramide fu costruita a gradini, chiamati merli o altarini. [2] E quando si giunse a tal punto della costruzione, le rimanenti pietre furono sollevate con macchine fatte di legni corti. Venivano sollevate da terra sul primo ordine, [3] da dove venivano tratte sul secondo ordine e su un’altra macchina. [4] Le macchine erano altrettante quanti erano gli ordine dei gradini. O forse la stessa, unica e maneggevole, veniva, tolta la pietra, spostata su ogni ordine. – Voglio esporre tutte e due le ipotesi come vengono presentate. – [5] Sicché furono terminate prima le parti più alte, poi quelle più vicine ad esse, e per ultime quelle che toccano il suolo, le più basse. [6] Un’iscrizione egiziana sulla piramide fa sapere quanto si è speso in syrmaia, in cipolle e in agli per i lavoranti. E se ben ricordo quello che mi diceva l’interprete leggendo l’iscrizione, furono pagati mille e seicento talenti d’argento. [7] se ciò corrisponde a verità, quanto è verosimile che si sia versato ancora per gli strumenti di ferro con i quali si lavorava, e per il cibo e le vesti dei lavoranti? Perché ho già detto il tempo che fu impiegato per edificare queste opere. E per tagliare le pietre, trasportarle, e fare lo scavo sottoterra, dovette occorrere, a mio parere, un’altro non indifferente lasso di tempo.
126 [1] – Cheope giunse, dicono, a tanta malvagità che, occorrendogli denaro, mise sua figlia in un lupanale, con l’ordine di raccogliere una determinata somma, che non mi è stata precisata. Ella eseguì l’ordine del padre; ma volle pure ella lasciare un suo ricordo, e a ogni visita chiedeva che li donasse una pietra. [2] I sacerdoti mi dissero che con queste pietre fu costruita la piramide che sorge in mezzo alle tre dinnanzi alla grande piramide, e di cui ogni faccia misura un plettro e mezzo.
127 [1] Dicevano gli egiziani che questo Cheope regnò cinquantanni, e che alla morte di lui ereditò il regno suo fratello Chefren. Il quale si conformò in tutto alla condotta del predecessore, e costruì anche una piramide, che però non raggiunse le dimensioni di quella di Cheope.
Il racconto di Erodoto colloca la costruzione della Grande piramide in un periodo storico imprecisato, ponendo come riferimento il regno mitico di re Rampsinito. Questo nome non trova riscontri se confrontato con i canoni reali ritrovati, sembrando quanto più una leggenda derivata dalle credenze popolari che rimandavano ad una mitica età dell’oro egiziana. I sacerdoti intervistati descrissero Cheope come un tiranno che ridusse in schiavitù il popolo, al fine unico d’impiegarlo nella costruzione della sua tomba monumentale. Viene oltremodo sottolineato anche lo sconsiderato dispendio economico finalizzato a soddisfare l’ego smisurato del sovrano. L’idea di un sovrano egocentrico e prevaricatore è rafforzata dal dettaglio che ascrive a Cheope la decisione di chiudere i santuari in favore delle sue aspirazioni personali. Stabilire se ciò avvenne realmente o se si tratta di una forzatura nata per enfatizzare le circostanze è obbiettivamente impossibile. Secondo il resoconto di Erodoto servirono dieci anni per predisporre il cantiere e venti per erigere la struttura, per un totale di trent’anni. I sacerdoti che intervistò richiamarono alla memoria gli enormi sforzi occorsi per il trasporto delle pietre dalla cava al luogo designato per la costruzione. Erodoto parlò in maniera generica di Monti Arabici per indicare gli affioramenti rocciosi posti oltre la riva orientale del Nilo e di Monti libici per indicare l’altopiano su cui venne eretta la Grande piramide oltre la riva occidentale. Oggi sappiamo che le pietre calcaree utilizzate per realizzare il corpo della piramide furono prelevate da una cava a pochi centinaia di metri dal cantiere, anche se alcuni hanno avanzato l’ipotesi che alcune pietre provenissero dal lato opposto del Nilo. Invece sappiamo per certo che i grandi blocchi di Granito utilizzati per realizzare gli ambienti interni della piramide furono fatti provenire dalle lontanissime cave di Assuan per ignoti motivi, e che furono trasportati a bordo di zattere lungo il corso del Nilo per centinaia di chilometri.
La lunghezza dei lati della piramide corrisponde alla realtà, mentre l’altezza è leggermente imprecisa. La descrizione delle operazioni di costruzione appare a mio modo di vedere un po’ confusa, dimostrando che al tempo di Erodoto la memoria di quell’evento storico fosse ormai ridotta a poco più che uno sbiadito ricordo, circostanza abbastanza comprensibile se si considera che intercorsero circa duemila anni tra il regno di Cheope e le indagini svolte dello storico greco. Erodoto riporta poi un pettegolezzo dei sacerdoti di Menfi, secondo cui Cheope fece prostituire una delle sue figlia per finanziare la costruzione della piramide. Questa storia fantasiosa ha tutta l’aria di essere un’altra leggenda popolare nata per incriminare ancora di più la condotta scriteriata di Cheope e il suo spreco di ricchezze operato senza tenere conto delle ripercussioni negative sull’equilibrio economico e sociale del regno. Secondo Erodoto il regno di Cheope durò cinquant’anni e alla sua morte divenne faraone il fratello Chefren, che a sua volta costruì un piramide grande quasi quanto quella del suo predecessore. Oggi sappiamo che tra Cheope e Chefren regnò per un breve lasso di tempo Dedefra. Questa dimenticanza può essere giustificata dal fatto che il regno di questo faraone non lasciò un’impronta indelebile, mentre appare decisamente più strano che Chefren e Cheope fossero considerati fratelli, circostanza improbabile se si considera che il regno di Cheope durò cinquantanni e quello di Chefren piu’ di trentacinque. Oggi sulla base dei documenti disponibili si può affermare con sufficiente certezza che Chefren non era fratello di Cheope, bensì uno dei suoi figli. La ricostruzione storica di Erodoto è basata su notizie indirette raccolte duemila anni dopo il regno di Cheope. Sebbene il suo racconto non possa essere considerato per intero una verità storica, apre la strada ad una riflessione molto interessante che potrebbe in un certo modo spiegare il motivo per il quale i faraoni della V dinastia non riuscirono ad eguagliare in grandezza le piramidi realizzate dai sovrani della IV dinastia. Forse i faraoni della V dinastia non potevano permetterselo perché i loro predecessori avevano speso tutte le ricchezze del regno per la realizzazione dei loro monumenti eterni.
Snefru fondò la IV dinastia alla fine del XXVII secolo a.C. inaugurando un’epoca di grande prosperità. Nel campo dell’architettura funeraria avvenne una rivoluzione ingegneristica senza precedenti che raggiunse la sua massima espressione qualche decennio più tardi con la costruzione della Grande piramide di Cheope sull’altopiano di Giza. Il suo impegno nel tentativo di edificare una dimora eterna perfetta gli valse il titolo di “Grande costruttore di piramidi”.
Precedentemente all’avvento della IV dinastia, era consuetudine scavare gli ambienti funerari nel sottosuolo, per poi ricoprirli con un tumulo di pietra rettangolare chiamato mastàba. La prima significativa evoluzione architettonica della struttura funeraria arcaica avvenne durante la III dinastia, quando la mastàba del faraone Djoser venne modificata aggiungendo altri cinque livelli di grandezza decrescente al fine di sviluppare il monumento funebre verso l’alto. Snefru, il primo faraone della IV dinastia, sviluppò ulteriormente la struttura arcaica esaltando il carattere monumentale del complesso funerario. A Dahshur realizzò due piramidi che raggiunsero i 100 metri di altezza (40 metri in più della piramide a gradoni di Djoser), in più le fece rivestite con blocchi di calcare bianco di Tura, finemente sagomati e levigati in maniera tale che potessero combaciare perfettamente gli uni agli altri, trasformando le facciate a gradoni delle piramidi in superfici perfettamente lisce. Lo stesso fece a Meidum, modificando in modo radicale la piramide a gradoni iniziata dal suo predecessore Huni.
Piramide romboidale
Piramide romboidale (o “a doppia pendenza”) di Dahshur. fonte immagine
La Piramide romboidale sorge a Dahshur, all’interno del complesso funerario meridionale dedicato a Snefru, attribuzione che venne avvalorata dal ritrovamento di numerosi cartigli recanti il nome del faraone. Il complesso sorge sulla sponda occidentale del Nilo e oltre alla piramide principale comprende altre strutture oggi in rovina, tra cui una piramide satellite, una lunga Via cerimoniale e alcuni templi funerari. Le quattro facce della piramide romboidale sono caratterizzata da una doppia pendenza. L’iniziale inclinazione venne modificata a metà altezza diminuendo l’angolo di pendenza da 56,°46′ a 43°60′, una variazione determinata dalla necessità di porre un rimedio a diversi problemi tecnico-strutturali riscontrati in corso d’opera. Questo difetto convinse il faraone ad avviare la costruzione di una seconda piramide. Tuttavia è presumibile che non volle abbandonare i lavori a metà dell’opera per non essere ricordato per i suoi fallimenti piuttosto che per la sua gloria.
All’interno della Piramide romboidale furono realizzati due ambienti funerari ad altezze diverse. L’ingresso all’appartamento inferiore è orientato verso le stelle circumpolari e conduce ad un lunga discenderia lunga 79 metri che termina quasi sotto il vertice della piramide a 23 metri nel sottosuolo. Al termine del corridoio si trova un’anticamera alta 12 metri che presenta una piccola apertura a 6 metri dal pavimento a cui vi si accedeva per mezzo un ripidissima scala di cui rimangono poche tracce sulla parete occidentale.
L’apertura collega l’anticamera alla camera sepolcrale vera e propria, un’ambiente largo 6 x 4 metri e alto 17 metri. Il soffitto è costituito con aggetti a incorbellamento sviluppati su 15 assise che creano un effetto a “gradini rovesciati”. Il lato meridionale della camera è collegato ad un “camino” di cui si ignora totalmente il significato simbolico.
Al secondo appartamento (quello superiore) vi si accede dalla facciata ovest tramite un corridoio discendente lungo 67 metri dotato di due saracinesche. La camera sepolcrale è costituita dalla sola cripta lasciata incompleta, in passato occupata da una sorta di grande catafalco di pietra che reca i cartigli di Snefru e numerose travi in legno di cedro che potrebbero confermare alcune scritture inserite nella Pietra di Palermo che ricorda una memorabile spedizione condotta in Libano per fare provvista di questo materiale.
Si presume che gli errori commessi nella Piramide romboidale convinsero il faraone a voler fare un secondo tentativo. La Piramide rossa fu edificata a poca distanza da quella romboidale e come quest’ultima era provvista di un rivestimento in calcare bianco che venne rimosso totalmente durante il medioevo per edificare la città de Il Cairo. Misura 105 metri di altezza e l’inclinazione delle sue facciate è pressoché identica a quella adottata nella parte alta della Piramide romboidale, un’analogia che rivela un processo di continuità con quest’ultima. All’interno della Piramide rossa vennero recuperati i resti di un uomo di mezza età, ma non furono trovate iscrizioni per poterlo identificare. L’attribuzione a Snefru si basa dunque sul ritrovamento di alcune iscrizioni esterne al monumento. Il fatto che monumenti così imponenti siano stati realizzati da un unico faraone che regnò 24 anni ha suscitato diverse perplessità anche all’interno degli ambienti accademici per via di numerose problematiche circostanziali di natura simbolica e logistica. Per risolvere questo enigma bisognerebbe considerare la IV dinastia come una stirpe di grandi costruttori, dove gli eredi si facevano carico delle opere iniziate dai progenitori qualora quest’ultimi non avessero fatto in tempo a terminare il proprio lavoro.
Soffitto a incorbellamento della prima stanza. fonte immagine
L’accesso alla piramide è posto a 28 metri di altezza sulla facciata nord e conduce ad una discenderia polare lunga 58 metri che termina grossomodo sotto il vertice della piramide, più o meno all’altezza del suolo. Il corridoi conduce alla prima di due anticamere di pari dimensioni, entrambe con soffitti costituiti con aggetti a incorbellamento identici a quelli riscontrati all’interno della Piramide romboidale. Le due camere rappresentano il percorso cerimoniale che conduce alla camera funeraria a cui vi si accede attraverso un passaggio posto a circa 8 metri di altezza. La camera funeraria misura 8 metri x 4 ed è orientata sull’asse Est-Ovest, mentre il soffitto si sviluppa verso l’alto con la consueta architettura a “gradini rovesciati”.
L’assenza di una piramide satellite e di una via cerimonia potrebbe confermare l’ipotesi che la piramide venne completata dopo la morte del faraone e che per tal motivo non venne completato l’intero complesso funerario.
Era il 1865 quando un pastore di Teti (centro abitato della provincia di Nuoro), appassionato di ritrovamenti di tesori nascosti, nella località denominata Abini portò alla luce i resti di uno dei più significativi santuari della Sardegna, la cui datazione è precedente di tre secoli la fase evolutiva del Bronzo medio (1500 a.C.), e arriva, senza soluzione di continuità, sino alle fasi finali dell’età del Ferro (VII sec a.C.).
In questa località, in un’area dove emergevano i resti di antiche costruzioni, fu rinvenuta una ciste litica (contenitore formato da lastre di pietra collocate al di sotto della superficie del terreno), il cui contenuto consisteva in parecchi reperti in bronzo provenienti da una stipe votiva di epoca nuragica. In particolare vennero dissotterrati 15 bronzi figuranti di offerenti, guerrieri e 3 statuine di personaggi con 4 occhi e 4 braccia; nello stesso ripostiglio erano conservati delle figure rappresentanti animali di diverso tipo, varie navicelle votive frammentarie, asce, spilloni, 40 pugnali, fibule frammentarie, 40 spilloni, alcune anse di vasi di bronzo e diversi basamenti per le offerte con le impiombature di fissaggio dei bronzi che però non furono raccolte.
Inizia così la storia di uno dei siti maggiormente rappresentativi della produzione bronzistica di età nuragica.
I bronzetti furono acquistati da Efisio Timon che a sua volta li donò al Regio Museo di antichità a Cagliari dove ancora oggi sono conservati; stessa destinazione ebbero gli oggetti recuperati da successivi scavi del 1878 provenienti da un grande vaso che i nuragici usarono come ripostiglio e contenente 750 pezzi del peso complessivo di 108 chili. I numerosi ex voto di bronzo di questa collezione riproponevano il repertorio già noto della collezione precedente, impreziosendola però di personaggio con mantello e bastone, di rappresentazioni della più alta gerarchia militare e di personaggi anche più popolari.
Demone-eroe
Tra quei reperti che oggi vanno ad arricchire le vetrine dei musei archeologici rientra la più importante, e sicuramente anche la più famosa tra tutte quelle che vanno a formare il vasto campionario iconografico sardo: il demone-eroe 4 occhi e 4 braccia, interpretato come rappresentazione di una divinità o di un uomo-eroe dotato di super poteri.
Il demone-eroe rientra tra le manifestazioni trascendentali che contraddistinguono la manifattura del periodo nuragico, in particolare quella dell’età del ferro, insieme alla restante produzione artistica del periodo. La sua natura umana trascende nel momento in cui l’artigiano sceglie di dotare l’eroe di quattro occhi e quattro braccia, rendendolo così più simile alla dimensione divina. Nel corso degli anni tuttavia sono state avanzate differenti ipotesi inerenti l’interpretazione iconografica di questa figura: alcuni autori sostengono che questa faccia riferimento ad un semplice mortale dotato di una vista molto acuta e di un’imponente forza fisica, altri hanno concepito l’idea di un eroe militare la cui sapienza e prestanza sarebbero identificate dalla ripetizione degli elementi.
Da un punto di vista concettuale il lavoro dell’artigiano risulta essere abbastanza significativo, in quanto mette in atto una sorta di magia attraverso l’unione del mondo umano con quello sacro. E questo fatto ci porterebbe a comprendere l’evoluzione per il quale l’uomo ad un certo punto tralascia l’archetipo del divino distante da se per arrivare alla credenza di un sovraumano più simile a se stesso. Evoluzione che probabilmente potrebbe essersi verificata in associazione con il progresso tecnologico: il poter asservire i cicli della natura al proprio volere, il poter domare l’istinto degli animali convertendoli in strumenti di fabbisogno, la capacità di poter estrarre dalla roccia i minerali e poterli lavorare, l’ingegno di poter realizzare strutture di grosse dimensioni mai viste prima e che perduravano nel tempo potrebbero aver fornito l’avvio di una nuova presa di coscienza e una nuova fiducia nell’individuo stesso. L’uomo cioè arrivava là dove in passato poteva solo l’essenza divina.
La parte che più caratterizza il bronzetto del demone- eroe è costituita certamente dalle lunga corna che si dipartono dal copricapo e convergono per mezzo di due pomelli sferici. Questa tipologia di corna risulta essere unica, non solo nell’ambito delle statuette ritrovate ad Abini, ma anche all’interno di tutto il complesso iconografico dei bronzi sardi , eccetto per il bronzetto di Padria, la cui analogia è riscontrabile proprio nelle corna dotate di pomelli.
Un’ interessante spunto ci viene fornito dalle antiche rappresentazioni iconografiche del reperto stesso. La tavola di Crespi del 1866 mostra, infatti, con ampia evidenza la presenza di due corna piuttosto corte anziché l’esistenza di quelle lunghe, pertanto in questo caso si dovrebbe parlare di un restauro ricostruttivo alquanto esagerato.
Ma quando è avvenuta la manipolazione del reperto? Secondo i dati storici derivanti dalle rappresentazioni e foto del bronzetto pare che la manomissione sia avvenuta tra il periodo della scoperta e prima descrizione della statuina (1865) e la citazione ad opera del Pais (1884), fatto sottolineato dallo stesso Lilliu, che si accorse della risega presente sulle corna stesse, e che molto probabilmente visionò il bronzetto senza corna in concomitanza di un altro restauro avvenuto nel 1949. L’osservazione delle fotografie a corredo delle varie pubblicazioni a partire dai primi del novecento ne comprovano l’incollaggio. L’ultimo restauro è stato effettuato dal Laboratorio di Restauro della Sopraintendenza archeologica della Sardegna verso il 1980. Concludendo si può affermare che il demone- eroe rappresenta in ogni modo un pezzo unico, un potentissimo mezzo per interpretare e raffigurare il soprannaturale, una singolarità della produzione bronzistica sarda.
Bibliografia. FADDA M. AUSILIA 2015. Teti nella preistoria, tra mito e archeologia, Carlo Delfino editore. LILLIU G. 1966. Sculture della Sardegna nuragica. MORAVETTI, ALVITO 2010. Sardegna archeologica dal cielo. Dai circoli megalitici alle torri nuragiche. TATTI M.. Il santuario nuragico di Abini a Teti (NU): storie di un sito, di uomini e di un demone-eroe.
fig.1 Piramide a gradoni di Djoser a Saqqara. fonte immagine
La prima piramide della storia egizia fu realizzata nella necropoli di Saqqara nel corso della III dinastia (2660 a.C. circa). Venne costruita al centro del complesso funerario dedicato a Djoser aggiungendo al di sopra della màstaba originaria altri cinque livelli di grandezza decrescente al fine di sviluppare il monumento funebre verso l’alto. L’usanza di tumulare i defunti affonda le sue radici nella preistoria e nacque dal bisogno di proteggere le salme dall’assalto degli animali saprofagi. Col passare del tempo le salme vennero seppellite a profondità sempre maggiori, mentre i tumuli assunsero gradualmente un aspetto monumentale. Durante il periodo predinastico l’accesso agli ambienti funerari ipogei veniva coperto con un grande tumulo di pietra rettangolare chiamato “màstaba”. L’evoluzione di questa struttura tronca verso una forma piramidale fu dettata probabilmente dalla necessità di stabilire un collegamento simbolico tra il defunto e i luoghi celesti a cui la sua anima era destinata. L’introduzione di questa architettura funeraria inedita fu attribuita all’architetto reale Imhotep, merito per il quale venne ricordato e divinizzato per tutti i secoli a venire.
Ambienti sotterranei della piramide di Djoser
Nel cuore della piramide non ci sono stanze, tutti gli ambienti funerari furono scavati nel sottosuolo roccioso prima che la piramide fosse edificata. L’esploratore Girolamo Segato riuscì ad entrare nella camera sepolcrale nel 1821, ma la trovò già violata.
fig.2 Pozzo verticale che conduce alla camera sepolcrale. fonte immagine
Vennero recuperati solo pochi oggetti, tra cui una maschera funeraria e un piede della mummia, ma anche questi andarono perduti durante il naufragio occorso alla nave che li stava trasportando in Germania. Durante le successive esplorazioni furono trovati altri pozzi, gallerie e cunicoli scavati nella roccia e persino un deposito di mummie della famiglia reale.
L’entrata del sepolcro si trova sul lato nord e conduce ad un pozzo verticale molto largo e profondo, un tempo sbarrato con un macigno di 3 tonnellate (fig.2). In fondo al pozzo, a circa 30 metri di profondità, si trova la camera sepolcrale, un ampio ambiente ipogeo rivestito con pesanti lastre di granito rosa. Dal grande pozzo verticale partono quattro gallerie orientate verso i punti cardinali che conducono a diversi ambienti e tra questi vi sono i famosi appartamenti “blu”, così chiamati per via del prezioso rivestimento parietale realizzato con preziose ceramiche bianche e turchesi (fig.3). All’interno di questi ambienti si trovano tre panelli di calcare decorati con la figura in rilievo del faraone Djoser (fig.3 e 4).
fig.3 False porte e rivestimento degli appartamenti ipogei. fonte immagine 1, fonte immagine 2, fonte immagine 3
Tutti i rilievi celebrano l’eterna regalità del faraone defunto, concetto fissato dall’immagine di un falco che vola sulla testa di Djoser stringendo tra gli artigli il simbolo dell’eternità “shen”. Tra gli altri simboli i più importanti ci sono quelli alla destra del faraone, il simbolo della vita“ankh” e lo scettro delle divinità “uas”, entrambi rappresentati in versione semi umanizzata mentre sorreggono dei ventagli con le braccia. A sinistra del volto di Djoser è rappresentato il “serekht”, una cornice rettangolare che contiene i simboli geroglifici che compongono il nome del sovrano, in questo caso “Netjerykhet”. Il collegamento con il secondo sovrano della III dinastia fu possibile soltanto nel 1889 quando venne rinvenuta la “Stele della carestia”, un’epigrafe di epoca tolemaica scritta in caratteri geroglifici ritrovata sull’isola di Sehel vicino ad Assuan. L’epigrafe riporta i nomi del secondo sovrano della III dinastia Netjerykhet Djoser e del suo sommo consigliere e ingegnere Imhotep, attribuendogli il merito di aver placato una terribile carestia che afflisse l’Egitto per sette lunghi anni.
Rilievi trovati all’interno degli appartamenti ipogei. fonte immagine
All’interno di una galleria furono rinvenuti moltissimi vasi e piatti appartenuti alle famiglie reali della I e II dinastia e alcuni addirittura precedenti. Alla base della piramide vi sono 11 pozzi verticali, dal cui fondo partono altrettante gallerie nelle quali vennero trovate ulteriori mummie della famiglia reale e molti manufatti. Essendo crollato il soffitto delle gallerie, i reperti integri recuperati furono solo qualche centinaio su un totale di 36.000 oggetti inventariati.
Il “serdab” si trova all’esterno della piramide, vicino al tempio settentrionale. Gli egizi credevano che il Ka del defunto si staccasse dal corpo dopo la morte e che superasse i confini del mondo fisico per sottoporsi al giudizio di Osiride nel Regno dei morti. Credevano che il Ka avesse bisogno di essere nutrito con offerte di cibo per continuare a vivere nell’aldilà e per questo motivo alcune tombe egizie avevano un ambiente pubblico, chiamato “serdab”, destinato a contenere una statua del defunto. Il serdab era provvisto di un foro (o finestra) che oltre a permettere l’introduzione di offerte lasciavano all’anima del defunto la possibilità di andare e venire liberamente.
fig.5 A destra, esterno del serdab. fonte immagine. A sinistra, statua del Ka di djoser all’interno del serdab. fonte immagine. La statua originale è conservata al museo del Cario, mentre quella che si vede all’interno della stanza è una fedele riproduzione dell’originale.