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Scritto da Manuel bonoli
Sacsayhuaman è un sito archeologico peruviano situato nella periferia settentrionale di Cuzco, l’antica capitale dell’Impero Inca. I cronisti spagnoli del XVI secolo scrissero che i lavori di costruzione iniziarono nel 1430, durante il regno dell’imperatore Pachacútec e che furono portati a termine nell’arco di settant’anni con il costante impiego di 20.000 uomini al giorno.
Architettura poligonale
Le mura poligonali di Sacsayhuaman furono realizzate incastrando enormi macigni con precisione millimetrica, ottenendo un risultato che ancora oggi lascia esterrefatti (fig.1-2). La complessità del lavoro svolto appare incongruente rispetto al livello tecnologico della civiltà inca e sulla base di questa osservazione molti autori hanno proposto di retrodatare la costruzione del complesso, attribuendolo frettolosamente alla mano di una civiltà tecnologicamente avanzata e scomparsa misteriosamente molto prima dell’epoca inca. Sta di fatto che le indagini archeologiche non hanno evidenziato alcuna traccia di presenza umana che preceda l’anno 900 d.C e dunque ogni ipotesi che tenti di anticipare la costruzione del complesso rispetto a questa data è quantomeno insensata. Il segreto della perfetta aderenza dei blocchi poligonali di Sacsayhuaman risiede invece nella scelta della parete rocciosa dalla quale sono stati estratti. Quest’ultima aveva un sistema di fratture naturali ben visibile sulle quali i cavatori intervennero con strumenti di pietra, rame, bronzo e legno. Le fratture della parete rocciosa pur essendo in perfetta aderenza isolavano evidenti conci lapidei, ciò significa che l’ammasso roccioso si presenta come un gigantesco puzzle che con l’impiego di semplici attrezzi fu “smontato “ in vari blocchi che successivamente furono levigati e ricomposti in un’opera muraria. I blocchi vennero fatti rotolare sui legni per superare le asperità del terreno e probabilmente venero sollevati con la costruzione di rampe e muretti ausiliari.
Le testimonianze deicronosti spagnoli
La civiltà Inca non sviluppò mai un sistema di scrittura pertanto la maggior parte delle informazioni acquisite in merito alla loro storia, al loro ordinamento sociale e alle loro arti, la si deve alle pubblicazioni di quei cronisti spagnoli, che oltre ad esaltare le gesta poco nobili dei conquistatori, s’interessarono con merito all’identità culturale delle popolazioni native sudamericane. Le informazioni storiche raccolte, tuttavia, non furono frutto di una osservazione diretta, ma vennero messe per iscritto sulla base di ciò che i discendenti dell’impero ricordavano della gloriosa “età dell’oro” Inca. Grazie al lavoro di scrittori come Pedro Cienza de Leon e Garcilaso de la Vega è stato possibile conoscere moltissimi aspetti della cultura Inca che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre.
Garcilaso de la Vega nacque a Cuzco nel 1539; fu figlio di un aristocratico spagnolo e di una discendente di sangue reale Inca, da cui apprese la storia e i costumi dei nativi peruviani. All’età di 20 anni si trasferì in Spagna dove ricevette un’educazione cattolica e dove passò tutto il resto della sua vita. Dopo aver intrapreso la carriera militare iniziò a scrivere la storia del suo paese d’origine, dalla nascita dell’Impero inca fino alla conquista spagnola e negli ultimi anni della sua vita realizzò tre opere dal valore storico incalcolabile. Nella sua seconda opera storica, intitolata “Commentari reali degli Inca”, descrisse la fortezza di Sacsayhuaman di Cuzco, sottolineando le insufficienze tecniche e l’inadeguatezza degli utensili di cui i suoi antenati erano dotati, in modo che si sapesse con quanta penuria e deficienza di tutti gli strumenti necessari al lavoro operassero questi ultimi.
Tratto da “Commentari reali degli Inca” di Garcilaso de la Vega, edizione Bompiani, pag 761.
Prima stampa a Lisbona nel 1609 con il titolo “Primera parte de los commentarios reales que tratan del origine de los Yncas, reye que fueron del Perù”.
Meravigliosi furono gli edifici eretti dagli Inca re del Perù: fortezze e templi, regge e giardini, magazzini e strade e altre fabbriche di grande magnificenza, come oggi si può vedere dalle rovine che ne sono rimaste, affinché sia difficile rendersi conto, sulla scorta delle sole fondamenta, di quel che fu l’intera costruzione.
Ma l’opera maggiore, la più maestosa che fecero innalzare, a dimostrazione del loro potere e grandezza, fu la fortezza di Cozco, le cui dimensioni possono sembrare incredibili, a chi non l’ha veduta, e chi l’ha guardata con attenzione è indotto a credere che l’opera sia frutto di un incantesimo, che a produrla siano stati i demoni, non già uomini; e ciò perché la quantità di massi, che sono tanti e così grandi, disposti a formare le tre cinte (e sono più macigni che pietre), è tale che non si riesce a immaginare come abbiano potuto estrarli dalle cave; infatti gli indiani non disponevano di buoi, non sapevano fabbricare carri, e del resto non esistono carri bastanti a reggere il peso né buoi capaci di tirarli; li portavano trascinandoli a forza di braccia mediante grosse funi; e non che le strade per cui li traevano fossero piane, essendo anzi sierras asperrime, con grandi scoscendimenti lungo i quali li calavano grazie alla sola forza fisica. Molti di quei sassi vennero ivi portati da una distanza di dieci, dodici, quindici leghe, e ciò vale in particolare per la pietra o, a meglio dire, roccia che gli indiani chiamano Saycusca, che vuol dire stanca (perché non entrò a far parte dell’edificio); è noto che ve la trascinarono da un luogo situato a quindici leghe dalla città, superando il fiume Yùcay, non molto meno ampio del Guadaluivir che passa per Cordoba. Quelli che furono portati dai luoghi più vicini, vennero da Muyna, che dista cinque leghe da Cozco. Ma ancor meno si riesce a immaginare come abbiano potuto commettere pietre siffatte, e in modo tale che a sostegno si giunge a inserire, tra l’una e l’altra, la punta di un coltello; e molte lo sono tanto esattamente, che la commessura si nota appena; a tale scopo, era mestieri alzare e abbassare le pietre l’una sull’altra più volte, poiché non conoscevano la squadra né sapevano valersi del regolo per metterle in opera e così stabilire se i piani di contatto dell’una e dell’altra corrispondevano.
Non sapevano neppure costruire gru o carrucole, né altro artifizio di cui servirsi per alzare e abbassare i massi, i quali hanno dimensioni tali da lasciare senza fiato,……
Ivi gli Inca eressero tre cinte, una dietro all’altra, disposte scalarmente; ciascuna di esse non misura meno di duecento braccia di lunghezza, e sono disposte a mezzaluna, perché vanno avvicinandosi, fino a congiungersi, all’altro muro liscio che si drizza dalla parte della città. Con la prima delle tre cerchie, gli Inca vollero esprimere tutta la loro possenza: ché, sebbene tutte e tre siano di una stessa fattura, quella include in sé l’intera grandezza dell’opera, poiché vi collocarono le pietre maggiori, tali che l’edifizio sembra incredibile a chi non l’abbia mai visto e fa restare a bocca aperta chi lo osservi e consideri le dimensioni e la qualità delle pietre, nonché lo scarso armamentario di cui gli indiani disponevano per tagliare, pulirle e collocarle.
A mio personale giudizio, quelle pietre non sono state estratte da cave, dal momento che non rivelano segni di tagli, ma sono ricavate da macigni isolati (di quelli che i litotomi chiamano masso vivo) che si trovano per quelle montagne, scegliendo i più adatti all’uopo; e, come li trovavano, così li collocavano, tant’è che le une pietre son concave da un lato e convesse dall’altro e sbieche da un altro, e queste con angoli taglienti e altre senza; né si sforzarono di eliminare protuberanze o rientranze; né di pareggiarle o colmarle, ma con la cavità di un masso grandissimo veniva riempita la convessità di un altro roccione altrettanto grande e anche maggiore, se di maggiori ne potevano trovare; e allo stesso modo, lo sbieco o il diritto di un masso lo eguagliavano con il diritto lo sbieco di un altro; e alla mancanza di saliente di una pietra supplivano con quello di un’altra, non già mediante un pezzo piccolo che valesse semplicemente a riempire la lacuna, bensì accostando al primo un altro masso munito di un’escrescenza, in modo da ovviare al vuoto dell’altro; ….
Un sacerdote nativo di Molina, che si è recato in Perù dopo che io ero venuto in Spagna, e ne è tornato poco tempo fa, parlando di codesta fortezza, e soprattutto della mostruosità delle sue pietre, m’ha detto che, prima di averle viste, mai avrebbe creduto che potessero essere grandi come gli era stato detto, e dopo averle viste gli parvero superiori alla loro fama; e che gliene venne un interrogativo ancor più arduo, e fu il dubbio che non abbiano potuto collocarle a quel modo se non per arte del demonio.”
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Sacrificio e volontà
Il peso medio dei macigni che compongono la cinta muraria più esterna del complesso si aggira attorno alle 100 tonnellate, mentre i blocchi più grandi della struttura raggiungono probabilmente le 300 tonnellate (fig.1). Guardando la varietà delle forme realizzate e la perfezione degli incastri non si può far altro che rimane sconcertati.
Sebbene gli inca disponessero di strumenti quasi primitivi, grazie ad una perfetta organizzazione sociale poterono impiegare in maniera continuativa una massiccia forza lavoro. Ogni operazione dovette richiedere moltissimo tempo e fatica, ma soprattutto forza di volontà e pazienza. L’estrazione, il trasporto, la sbozzatura e la levigatura di ogni singolo macigno poteva durare mesi o anni, ma la lentezza di ogni singola operazione poteva essere compensata con le qualità sopracitate e con l’impiego di numerosissime squadre di lavoro reclutate in tutto l’impero. Dalle parole di Garcilaso de la Vega traspare un certo senso d’orgoglio nel descrivere la volontà dimostrata dai suoi antenati. L’autore sottolinea ripetutamente le carenze della tecnologia inca ma con ciò non sminuisce minimamente la condizione dei suoi antenati, al contrario la esalta, lodando la volontà d’animo di di quegli uomini.
Le regioni sottoposte all’Impero inca erano obbligate a fornire manodopera per i progetti di stato. Alcuni macigni utilizzati furono reperiti in loco, mentre altri vennero trasportati anche da grandi distanze dal momento che le pareti rocciose utili alle attività inca, ovvero quelle che presentavano sistemi di fratture adeguati, si trovano soltanto in determinate zone del territorio.
Sacsayhuaman non è una fortezza
La struttura di Sacsayhuaman non venne progettata per svolgere funzioni di difesa ma nonostante ciò venne indicata con l’appellativo di “fortezza” perché le sue imponenti mura indussero i primi conquistatori spagnoli a pensare che avesse una funzione militale. Ad alimentare il possibile fraintendimento vi fu anche il fatto che la collina di Sacsayhuaman fu teatro della sanguinosa battaglia che nel 1536 contrappose i conquistatori spagnoli all’ultima resistenza inca. Oggi si sta considerando l’ipotesi che Sacsayhuman fosse in realtà un grande centro cerimoniale; l’ampia piazza di fronte alle mura poligonali potrebbe essere stata progettata per contenere migliaia di persone durante le attività cerimoniali, mentre il palco elevato scavato nella roccia che fronteggia l’intero complesso potrebbe essere stato un luogo riservato all’élite sociale (fig.5). Comprendere la funzione di Sacsayhuaman è complicato perché tutti gli edifici della parte alta vennero smantellati dagli spagnoli che durante la costruzione degli edifici governativi e religiosi della città coloniale.
La Testa del Puma
La pianta dell’antica città imperiale riproduceva la forma di un puma, la “fortezza” rappresentava la testa, mentre i due fiumi che attraversano la città (oggi tombati) delimitavano la figura del corpo. Il fatto che che l’antica capitale dell’impero fosse consacrata al puma è confermato anche da una complessa rappresentazione incorporata all’interno di una parete poligonale collocata nel centro storico di Cuzco (fig.6).
fonte:
“Commentari reali degli Inca” di Garcilaso de la Vega, edizione Bompiani
“Un’ipotesi sulla costruzione dei muri poligonali incaici” di giuseppe Quaglino, 2017
Manuel Bonoli
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