I popoli cacciatori del Paleolitico furono esperti conoscitori della natura e per migliaia di anni vissero in stretta interazione con le altre specie viventi, da cui trassero le risorse alimentari necessarie per la propria sussistenza. Essi dovettero conoscere le abitudini e il comportamento delle loro prede di caccia: dove vivevano, i periodi degli accoppiamenti e quelli del parto, quali territori frequentavano e in quali stagioni dell’anno; in egual modo dovettero imparare a conoscere i ritmi stagionali delle piante commestibili e degli alberi da frutto. La flora e la fauna, in particolar modo nell’emisfero boreale, sono da sempre soggette ad una particolare ciclicità determinata dai mutamenti stagionali, che si allaccia quindi alle trasformazioni che riguardano il tempo atmosferico, la temperatura, il calore e la durata del giorno.[1] Questi cambiamenti influenzarono il ritmo delle attività predatorie e l’organizzazione sociale della comunità, che probabilmente oscillava tra un momento di massima dispersione sul territorio e un momento di massima concentrazione, rispettivamente in inverno e in estate. Gli uomini della preistoria scoprirono che il trascorrere delle stagioni è scandito da determinati fenomeni celesti, legati al moto apparente del Sole e della Luna, e alla comparsa nel cielo notturno di determinate costellazione, pertanto li utilizzarono per determinare il trascorrere del tempo ciclico. L’abbassamento del sole e la conseguente diminuzione del calore e delle ore di luce durante il periodo invernale e il ciclo inverso, che porta il sole ad alzarsi progressivamente sulla linea dell’orizzonte mentre le giornate diventano via via più calde e lunghe, costituivano i termini entro i quali si svolgevano le attività fondamentali delle popolazioni preistoriche.[2] I momenti più significativi del ciclo del ciclo stagionale assunsero perciò un significato simbolico legato alla trasformazioni del tempo, della natura e della comunità umana. [3]
Gli uomini della preistoria conseguirono le loro esperienze in perfetta simbiosi con la natura, immersi in quell’eterno ciclo di vita e morte che governa il mondo pertanto svilupparono un naturale senso di devozione nei confronti di tutti gli elementi naturali favorevoli alla riproduzione e al mantenimento della vita, e un reverenziale timore per le manifestazioni avverse alla propria sopravvivenza. Nel periodico rinnovamento della natura riconobbero l’esistenza di un principio rigenerativo e presumendo che tale beneficio potesse coinvolgere anche l’esistenza dell’uomo iniziarono a concepire l’idea che la morte non è la fine, ma il principio della vita ultraterrena. Durante il Paleolitico si andarono dunque a delineare i tratti distintivi di un sentimento religioso incentrato sull’adorazione delle forze invisibili della natura e sulla credenza che lo spirito dell’uomo potesse oltrepassare la morte, trovando nuova vita in una dimensione ultraterrena.
Tra gli elementi della natura indispensabili alla vita l’acqua è senza dubbio tra i più importanti; molte delle sue caratteristiche la fanno sembrare animata perciò è psicologicamente comprensibile che fosse divenuta oggetto di culto in tutte le sue forme. L’acqua è sempre in movimento, quando è calma riflette il mondo, porta nuova vita alla vegetazione secca, rinfresca e disseta le creature viventi; invece quando è tumultuosa “parla” con ruggiti spaventosi mostrando la sua forza distruttiva. L’acqua piovana, le sorgenti e i fiumi, rendono fertile e fruttifera la terra perciò gli uomini del passato riconobbero in essa il principio di una forza vivificante.[4] Lo stesso potere vivificante venne attribuito al Sole data la comprovata esistenza di una relazione tra l’intensità del suo calore e i periodici mutamenti della natura. Ancora potrei citare il fuoco; nonostante esso abbia cambiato in meglio l’esistenza dell’uomo racchiude in se il potere di distruggere la vita, le sue fiamme divorano tutto ciò che incontrano lasciando soltanto ceneri. Solamente la pietra può resiste al calore delle fiamme e proprio per questa peculiare immutabilità che divenne simbolo di eternità. Determinati animali divennero oggetto di culto in virtù di particolare caratteristiche, come forza, aggressività o astuzia, in quanto si ritenne che potessero incarnare i poteri mistici delle forze venerate. Questa comparazione diede origine ai fenomeni di zoolatria tipici dell’epoca protostorica che in alcuni casi influenzarono profondamente l’evoluzione delle prime religioni storiche. A titolo d’esempio si può citare la religione egizia e il suo complesso pantheon di divinità, in molti casi venerate in forma animale.
L’uomo della preistoria sperimentò che le forze della natura potevano essere favorevoli o avverse alla sua sopravvivenza pertanto nei momenti più critici della sua esistenza avvertì l’esigenza di “proteggere” il proprio destino con gesti rituali e amuleti. La sopravvivenza delle comunità preistoriche fu totalmente assoggettata alla generosità della natura; eventi avversi come la siccità o la diminuzione delle prede di caccia potevano essere fonte di una grande preoccupazione, che si andava ad aggiungere ai turbamenti esistenziali che pervadono la psiche umana. I riti propiziatori ebbero pertanto un ruolo fondamentale nella vita dell’uomo; l’illusione di poter scongiurare il verificarsi delle calamità collettive o di poter propiziare il favore delle forze della natura, favorendo ad esempio il reperimento del cibo o la guarigione di un malato, alleviò l’esistenza dell’uomo dal peso delle inquietudini che risiedono nel profondo del suo animo. Inoltre, la speranza di poter superare la morte incoraggiò l’adozione di rituali funebri di natura propiziatoria. Altre pratiche rituali, come i riti d’iniziazione e le celebrazioni di nascita, ebbero invece origine dalla necessità di stabilire un legame diretto tra l’individuo e la dimensione ultraterrena. Dalle tracce identificate possiamo pertanto distinguere due aspetti rituali del pensiero religioso preistorico: i riti propiziatori e i riti d’iniziazione.[5]La dieta dell’uomo paleolitico si basò essenzialmente sulla caccia di grandi animali selvatici, sulla pesca e sulla raccolta dei frutti spontanei della natura. Grazie all’indagine archeologica si è appreso che l’attività di caccia comprendeva una serie di azioni rituali impregnate di magia. Quanto detto è attestato dai numerosi dipinti delle caverne franco-cantabriche, che si offrono ai nostri occhi da pareti di roccia situate negli anfratti più nascosti delle grotte, suscitando un senso di sacralità paragonabile a quello che si potrebbe percepire alla vista dei cupi affreschi delle grandi cattedrali gotiche. I bisonti, le renne, i mammuth, i cinghiali, ecc., sono dipinti spesso con colori vivaci ottenuti con ocre di vario tipo e con altre polveri di origine minerale impastate con il grasso animale. In valore “sacrale” di queste rappresentazioni è confermato dal fatto che nella maggior parte dei casi furono riprodotte in grotte di “difficile accesso” e pertanto in luoghi riservati agli iniziati. Le figure, talvolta dipinte a centinaia sulla medesima porzione di roccia, sono disposte in modo caotico e spesso si sovrappongono senza alcun ordine prestabilito: in questi casi si evince che la mano dell’artista si concentrò sulla rappresentazione di un unico soggetto, senza curarsi dei rapporti che esso veniva a contrarre con le altre rappresentazioni vicine. L’esempio più significativo è rappresentato dalla pitture e dalle incisioni della grotta di Trois-Frères, situata nel sudovest della Francia.
Le raffigurazioni parietali della di grotta di Trois-Frères sono eccezionalmente significative per la conoscenza delle credenze e dei riti propiziatori del Paleolitico superiore; cavalli, buoi, bisonti, renne e mammut, furono rappresentati con sottili incisioni profonde e sovrapposti l’uno all’altro in un groviglio di linee a prima vista indecifrabile. Lo scopo prevalentemente magico di queste figure, realizzate all’incirca 13.000 anni fa, è attestato dalla rappresentazione di creature fantastiche che nel loro aspetto mescolano caratteristiche umane a quelle di diversi animali. La più nota è quella del cosiddetto “Stregone”; questa figura, in parte graffita e in parte dipinta, venne realizzata al di sopra di tutte le altre; il busto e la coda assomigliano a quelli di un cavallo ma i piedi, le gambe e la postura quasi eretta riproducono l’anatomia di un uomo; la testa è invece sormontata da corna di cervo e incorniciata da una fluente barba; gli occhi sono rotondi come quelli degli uccelli notturni. È incerto se si tratti della rappresentazione di un uomo mascherato durante lo svolgimento di una pratica rituale, o della rappresentazione di un essere sovrannaturale invocato nel rituale propiziatorio della caccia.
Gli animali selvatici furono la fonte alimentare primaria della dieta paleolitica pertanto la psiche dell’uomo fu pervasa a concepire un artificio figurativo di ordine magico che potesse propiziarne la cattura. Le figure animali riscontrate tra le pitture parietali del Paleolitico coincidono con le prede di cui l’uomo si nutriva. Le principali raffigurazioni ritraggono grandi branchi di mammuth, interminabili mandrie di bisonti, renne e cavalli, mentre gli animali estranei alla dieta paleolitica non compaiono quasi mai tra quelli rappresentati; le immagini di rinoceronti, lupi, orsi e felini sono infatti molto rare. Le frequenti rappresentazioni riferibili alle prede di caccia, talvolta trafitti da frecce, testimoniano il desiderio dell’uomo d’impadronirsene con la magia. E’ stato più volte osservato nei contesti tribali dell’Africa centrale che prima di una spedizione di caccia lo stregone del gruppo disegna la sagoma dell’animale da uccidere e sulla rappresentazione rituale della vittima vengono scagliate le punte delle armi usate dai cacciatori. Come si intuisce, questa messinscena figurativa nasce per propiziare la cattura della preda “evocata”. Ogni dubbio residuo in merito alla possibilità che le pitture del Paleolitico possano essere soltanto elementi decorativi decade con il fatto che le immagini non furono riprodotte nelle zone delle caverne abitate dall’uomo ma in cavità profondissime nelle quali non giunge neppure la luce del giorno. Addentrarsi nel cuore di una caverna, rischiando di perdersi nell’oscurità, doveva essere un’esperienza mistica di cui si può percepire a tutt’oggi il significato iniziatico. I pochi ricercatori che hanno avuto il privilegio di addentrarsi in queste cattedrali preistoriche hanno potuto sperimentare un’emozione conturbante, che affonda le sue radici in qualcosa di enormemente lontano, di ancestrale, che giace sepolto nel più profondo della coscienza di ogni uomo.
fonti
[1][2][3]“Le porte del’anno: cerimoniestagionali e maschere animali” di Enrico Comba e Margherita Amateis.
2019 Accademia University Press
Collana di studi del Centro Interdipartimentale di Scienze Religiose – Università di Torino
[4]L’adorazione della natura – Elementi e forze della natura tratto da https://delphipages.live/it
https://delphipages.live/it/filosofia-e-religione/spiritualita/elements-and-forces-of-nature
[5] “Le religioni della preistoria” di André Leroi-Gourham. 1993, Adelphi Edizioni. Pag 70
Titolo originale: “Les religiones de la préhistoire Paléolithique”. 1964, Universitaires de la France Paris.
Traduzione di Elina Klersy Imberciadori.
Manuel Bonoli
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